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 2018  marzo 04 Domenica calendario

«In telecronaca dicevo che è tutto molto bello. Ora lo penso davvero». Intervista a Bruno Pizzul

CORMONS ( GORIZIA) «Tutto molto bello». Bruno Pizzul compie 80 anni e dice che la sua vita, come il calcio a cui l’ha dedicata, è riassunta nella frase che gli abbiamo sentito pronunciare milioni di volte.
Assieme a Carosio, Martellini e Ciotti, è stato il telecronista sportivo più amato della Rai. Si è ritirato a Cormons, il suo paese, dove è circondato dalle vigne che regalano i grandi bianchi del Friuli orientale. Qui, giovedì prossimo, amici, colleghi e campioni brinderanno assieme ad uno degli ultimi «grandi signori» della televisione e dello sport.
Cosa le manca, dell’età del lavoro?
«Il piacere di stare in compagnia, con colleghi che un tempo diventavano amici. Rapporti profondi. Ricordo certe partite a carte e a biliardo: giocavamo, ma si parlava fino a sentirsi fratelli».
È vero che ha fatto il giornalista per non sentirsi solo?
«No, l’ho fatto per caso e per avere un lavoro. Ma è vero che facendolo ho imparato il valore dell’affetto.
Ho potuto avere una moglie, una famiglia, tre figli e undici nipoti.
Esistere significa questo».
Perché, dopo 40 anni a Milano, è tornato a Cormons, vicino al campetto dove ha cominciato a giocare a pallone?
«Per la pressione delle cose essenziali. L’otium latino non è il padre di tutti i vizi, ma la condizione per apprezzare le cose che non sono piccole. Girare in bici, non avere fretta, ridere e bere un bicchiere, sentire il tempo e le stagioni. Mi serviva un posto per tenere d’occhio i cambiamenti».
L’Italia oggi non è questa terra promessa.
«Non serve ripetere i luoghi comuni su potenzialità ed eccellenze. La verità è che non riusciamo a fare le cose insieme.
Non stiamo attenti, troviamo faticoso comportarci bene.Rinfacciamo agli altri i nostri difetti: il problema è che troviamo grigia la disciplina».
Da ex insegnante di lettere e filosofia, prima che da ex calciatore, pensa che siano sottovalutati i pochi giovani che restano?
«Direi che il punto è la carenza di esempi buoni. Si insegna tutto, ma non il senso dell’attesa, il rispetto, l’educazione come responsabilità, la grandezza del dovere. Domina l’equivoco tra amore e istinto protettivo. I giovani sono soli, non credono che le parole sottendono un senso reale: campioni del calcio compresi».
Cosa le è piaciuto della vita?
«Smesso con il calcio giocato, poter restare vicino allo sport competitivo, che significa pretendere e dare il massimo. Poi l’opportunità di conoscere qualcosa del mondo quando ancora si tolleravano le sue fantastiche diversità».
Cosa deve avere una persona per poter essere un telecronista?
«La spontaneità, la forza di restare chi realmente è, non imitare gli altri. Lo sport è emozione: se leggi un copione non la trasmetti, la gente lo sente, lo spettacolo finisce. Naturalmente non vale solo per un telecronista».
Si dice che lei non abbia mai gradito avere vicino una “seconda voce”: perché?
«Lo spettacolo sono le immagini.
Parlare troppo distrae. Lo sport si risolve nella bellezza di un gesto.
Ognuno ricorda, dopo quasi mezzo secolo, il gol di Pelè contro l’Italia ai Mondiali in Messico».
Permette di parlare un po’ anche di lei e di pallone?
«Prego, mi sembra di ricordare qualcosa...».
Come le è successo tutto?
«Cormons, finita la guerra, rimase occupata dalle truppe di Tito. Le famiglie erano divise dall’odio. Il parroco si procurò un pallone e riunì almeno i bambini all’oratorio. Sono diventato un calciatore, cosa che nell’Isontino è stata normale: Bearzot, Blason, Toros, i fratelli Orzan, poco più in là Rocco, i Maldini, Capello, Reja, Zoff, Del Neri. La vena d’oro poi si è esaurita».
Come lo spiega?
«Come ovunque: il pallone non è rimasto solo un divertimento. E non sottovaluterei il pressing triste dei genitori sui figli. Il grande calcio resta una questione di noia con gli amici e di campetti d’estate».
Che tipo di calciatore è stato?
«Modesto. Centrocampista metodista: sono oltre 1,90, marcavo il centravanti avversario. Con il Catania, in B, mi è capitato di dover fermare Sivori, sublime mascalzone. Un ginocchio mi ha fatto ritornare a casa».
Ha ammesso che odiava i giornalisti sportivi: come ci è cascato?
«Dovevo combinare qualcosa.
Laurea in giurisprudenza, uno studiolo per difendere ladri di polli, lezioni alle medie e presto al liceo di Monfalcone. Era il 1969, al concorso Rai di Trieste non si era presentato nessuno.
Convocarono tutti i giovani laureati della regione e finii a Roma. Mi ha scoperto Paolo Valenti».
Cinque Mondiali, 4 Europei, 18 anni di telecronache della nazionale, 33 di Rai: è vero che dopo l’addio i telespettatori invocavano il suo ritorno?
«Quelli venuti dopo sono bravi e più preparati. So però che ho rifiutato un contratto Rai di collaborazione: ho risparmiato agli sportivi di vedermi sull’Isola dei famosi».
La mitologia vuole che il debutto sia stato faticoso.
«Un incubo. Aprile 1970, Juventus-Bologna sul neutro di Como. Alle 10 ero già lì. Beppe Viola insiste per andare a pranzo e al caffè capisco che il dramma della Brianza in colonna verso lo stadio è consumato. Sono arrivato a partita iniziata, certo del licenziamento, salvato dalla differita: dopo, mai un ritardo e addio ai pre-partita con Viola».
Le pesa non aver mai gridato “campioni del mondo”, o “campioni d’Europa”?
«Un caso, ma non ho smesso di soffrire. Darei molto per far rigiocare agli azzurri la semifinale di Italia ‘90 contro l’Argentina.
Quella squadra aveva tutto per vincere. Ma prima riavvolgerei il nastro per prevenire la strage dell’Heysel. Non ci dissero cos’era successo: mi chiedo se avrei avuto il coraggio di non raccontare la finale».
Perché l’Italia non riesce a dare un governo nemmeno al proprio calcio?
«Perché non si parla di calcio, ma di soldi. La domanda è a chi deve realmente appartenere lo sport.
Se la risposta è alle persone che lo amano, affiderei il calcio italiano a Damiano Tommasi, o a qualcuno che ha giocato davvero».
Lei insiste sui danni dei soldi: ma lo sport potrebbe farne a meno?
«Non demonizzo il denaro, ma negli spogliatoi una volta i giocatori parlavano. Oggi si isolano per controllare il conto corrente sullo smartphone. Sono tristi, anche se guadagnano più un medico in dieci vite, senza fare qualcosa di buono. Dobbiamo trovare il coraggio di dire che non è giusto e che così si distrugge la meraviglia dello sport».
A 80 anni dice ancora «tutto molto bello»?
«Adesso lo penso. Ho capito che lo dicevo perché ero felice e perché speravo che tutti potessero esserlo, con gli amici davanti alla tivù, o per strada facendo due tiri contro un muro».
E oggi cosa le viene da dire?
«Citandomi in terza persona, direi che anche Pizzul “ha il problema di girarsi”. Però, chissà perché, mi vengono in mente anche il calcio, l’Italia, il resto, tante altre cose decisive che tutti sappiamo».