la Repubblica, 3 marzo 2018
Così ho deciso di sparire nelle mie opere. Intervista a Liu Bolin
In un mondo – dell’arte e non solo – dove “apparire” è fondamentale, c’è un uomo che ha scelto di sparire nelle sue stesse opere. Il cinese Liu Bolin, nato nel 1973 a Shandong, nella Cina orientale, con un sapiente lavoro di body-painting si mimetizza nel contesto alle sue spalle: città, paesaggi, monumenti celebri. Nelle sue foto, che sono in realtà la sintesi di più linguaggi – pittura compresa – distinguerlo non è facile. Il grande pubblico lo conosce per le sue campagne pubblicitarie: fotografato da Annie Leibovitz, si è mimetizzato tra i ghiacci per un noto marchio di moda di cui è testimonial. Adesso la mostra Liu Bolin. The invisible man al Vittoriano di Roma (Ala Brasini, fino al primo luglio) raccoglie settanta scatti realizzati in dieci anni (prodotta da Arthemisia con la Galleria Boxart). Nelle sette sezioni in cui è diviso il percorso, non può mancare l’Italia: La Scala, il Ponte di Rialto, il Colosseo e la Reggia di Caserta compongono un personalissimo Grand Tour.
Come ha scelto i posti del nostro Paese in cui sparire?
«Amo l’Italia. Qui il confronto con alcuni luoghi è inevitabile.
Chiunque arrivi a Roma non può fare a meno di imbattersi in Castel Sant’Angelo, la Galleria Borghese, il Colosseo... Questi edifici costituiscono un’idea di storia dell’arte italiana tutta mia. Come artisti non possiamo prescindere dal passato e dalla cultura classica che nasconde l’essenza dell’essere umano. Accade qui in Italia come in Cina per la Grande Muraglia o la Città Proibita».
Lei era uno scultore. Decise di cambiare modalità di espressione dopo che il suo studio fu demolito nel 2005 con tutta l’area del suo quartiere per una riconversione urbanistica stabilita dal governo. Perché ha scelto di sparire?
«Avevo studiato scultura all’università, ma dopo la distruzione del Suojia Village, il posto in cui vivevo, ho capito che in quel momento si trattava di un mezzo espressivo troppo debole.
Così ho pensato di far sparire il mio corpo, lasciar parlare i luoghi e le macerie per esprimere la protesta e insieme riflettere sulla creatività dell’artista».
Come sceglie i luoghi per i suoi lavori?
«Ho scelto soprattutto le rovine e le demolizioni come sfondo, quando mi sono nascosto nelle opere dedicate alle città. Nei primi tempi, mettevo in risalto anche gli slogan di protesta che avevamo scritto nel villaggio demolito. Ho sperimentato la sparizione nelle città dal 2005 a oggi. I temi in questi tredici anni sono cambiati. Ma quello che mi interessa è denunciare un disagio, una crisi, un potenziale problema, mettere in discussione gli aspetti del mondo cosiddetto civilizzato. Applico lo stesso metro ovunque. Per esempio a Wall Street, dove mi sono mimetizzato nella statua del toro, o a Parigi, nella redazione della rivista Charlie Hebdo».
Quanto tempo lavora a una singola opera? E come le realizza tecnicamente?
«Dipende dalla complessità dello sfondo. Mi aiuta sempre uno staff di cinque-sei persone: un fotografo, un pittore, i cameramen e un autista.
Prepariamo vestiti, pigmenti e quant’altro ci serve direttamente in macchina. L’autista ci porta sul luogo delle riprese. Prima di scattare le foto, proteggo la mia pelle e i capelli su cui verrà applicato il colore con una maschera. La scelta dello sfondo è la cosa più importante: mi può portare via anche un paio di mesi. Una volta che ho deciso, la realizzazione effettiva è veloce: la più lunga è durata sei-sette ore.
Mi interessa la dialettica contraddittoria che si crea tra gli uomini e lo sfondo in cui vivono, che è realizzato a sua volta da uomini. Il contesto in cui viviamo spesso ci limita, impedisce al nostro talento di esprimerci».
Ci sono stati lavori più difficili da realizzare o che l’hanno coinvolta di più dal punto di vista emotivo?
«Ci sono luoghi che, purtroppo, non ho potuto usare perché non ho ottenuto il permesso: questo può essere l’aspetto più difficile del mio lavoro. Per il resto, i posti che mi toccano il cuore hanno molte possibilità di diventare parte delle mie opere».
Pensa che gli artisti cinesi abbiano contribuito a diffondere tra il popolo cinese un’idea più ampia di libertà?
«Oggi essere artisti in Cina è più semplice rispetto al passato. Ci si può esprimere artisticamente, realizzare il proprio sogno. La generazione dei miei genitori, nati negli anni Cinquanta, al contrario, ha sperimentato una libertà culturale ed espressiva decisamente limitata».
L’arte è sempre politica?
«Dalla nascita della Repubblica Popolare a oggi, c’è stato un dibattito molto acceso su questo tema in Cina. L’arte e la politica sono difficilmente separabili.
Tanto più se la politica è qualcosa che respiri nell’aria. Il problema è che oggi i collezionisti cinesi, per ragioni di mercato, guardano soprattutto ai maestri occidentali: non acquistano arte cinese. E, dall’altra parte, le gallerie, i musei e le istituzioni straniere sono più interessate agli artisti cinesi con inclinazione più spiccatamente politica. Il risultato è che la nuova creatività degli artisti cinesi fa fatica ad emergere all’estero».
Grazie ai nuovi media la tendenza principale dell’uomo contemporaneo è di apparire, di lasciare un segno, quanto meno sul web. Pensa che le nuove tecnologie incidano negativamente sulle nostre esperienze?
«Tutt’altro. Penso che l’avvento di Internet, dei nuovi media e dell’intelligenza artificiale siano elementi importanti della nostra evoluzione. Come artisti sensibili, dovremmo cogliere i doni di questa nuova era. Ogni epoca ha saputo utilizzare, anche nell’arte, la tecnologia del suo tempo».