3 marzo 2018
In morte di Gillo Dorfles
Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera
Pareva che Dio si fosse dimenticato di lui. Seduto in poltrona, la coperta sulle ginocchia, il profilo etrusco, stringeva un poco gli occhi arrossati e rivedeva tutti i ricordi della sua vita infinita: da Francesco Giuseppe allo smartphone, dalla Trieste asburgica in cui era nato alla Milano nevosa in cui si è spento ieri, oltre un secolo dopo.
Angelo «Gillo» Dorfles veniva da un altro mondo, e pareva impossibile che mangiasse e bevesse e respirasse come noi. Era nato austroungarico, suddito dell’imperatore. Aveva giocato a bocce con Italo Svevo, comprato libri da Umberto Saba, litigato con Eugenio Montale. Suo suocero era molto amico di Giuseppe Verdi. Aveva ascoltato la bisnonna raccontare le Cinque Giornate di Milano; era andato in barca sui Navigli. Sua moglie arrivò all’altare al braccio di Arturo Toscanini.
Non amava le domande sulla longevità. Non era solo un uomo molto vecchio; era uno dei protagonisti della cultura italiana. Eppure era inevitabile chiedergli come avesse potuto sopravvivere al proprio tempo così a lungo. Il segreto, diceva, era fare e mangiare solo le cose che gli piacevano: il pesce fritto, i fiori di zucca, i carciofi, gli gnocchi alla romana, il vino rosso. L’ultima volta andai a trovarlo tre settimane fa, a raccogliere per i lettori del «Corriere» il racconto della sua vita. Non ci sarei riuscito senza l’aiuto di suo nipote Piero.
I Dorfles sono una famiglia di origine austriaca, trasferita a Gorizia. Il nonno di Gillo era presidente del teatro Verdi, molto fiero di avervi portato Eleonora Duse. Lui era nato a Trieste il 12 aprile 1910. Ricordava la città pavesata di bandiere gialle e nere con le aquile, i colori dell’impero. Quasi ogni giorno usciva in passeggiata con la madre. Incontravano un pope barbuto, un prete greco, che lo vezzeggiava. E passavano dalla libreria antiquaria di via San Nicolò, gestita da un uomo burbero: «Cos’ti vol picio? No xe roba per ti!». Era Umberto Saba. Linuccia, la figlia, si fidanzò con un altro ragazzo che amava i libri, Bobi Bazlen: lui e Gillo andavano insieme a lezione da un professore che aveva conosciuto bene Joyce e spiegava l’ Ulisse, allora ignoto in Italia.
Il salotto della sua giovinezza era quello di Olga Veneziani, che aveva una fabbrica di vernici sottomarine: una signora dal carattere terribile, che mal tollerava le prove letterarie del genero, Ettore Schmitz, che nessuno conosceva ancora come Italo Svevo. Con lui Dorfles andava in gita sul Carso, beveva nelle locande. Il primo articolo sul «Corriere della Sera», chiestogli da Dino Buzzati, raccontava proprio casa Veneziani. C’era una giovane pittrice, Leonor Fini, eccentrica e vistosa: un professore li vide camminare a braccetto e telefonò alla madre di Gillo allarmatissimo: «Suo figlio si accompagna a donne di malaffare!». Ai bagni Savoia divenne amico di Leo Castelli, che avrebbe ritrovato a New York, diventato il più grande mercante d’arte del secolo.
Da bambino andava a Milano a trovare la bisnonna, che abitava in corso Venezia, nel palazzo con le quattro colonne al numero 34. La bisnonna era stata amica di Carducci e gli parlava del Risorgimento: lei c’era. Cent’anni fa Milano era ancora un borgo tranquillo, circondato da orti e cascine. Dorfles amava passeggiare lungo il naviglio che ora è via Senato, andava in barca nel laghetto di San Marco. Conobbe Adolfo Wildt e il suo allievo più brillante, Lucio Fontana, che ancora non tagliava le tele.
Amava l’arte ma si sentiva obbligato a prendere «una laurea seria», e si iscrisse a medicina. Voleva diventare psichiatra come Ugo Cerletti, l’inventore dell’elettroshock. Ricordava ancora come si fa: «Si mettono due elettrodi alle tempie del paziente, la scossa elettrica gli fa perdere coscienza. Molto impressionante…». Dopo tre anni a Milano si trasferì a Roma, dove fu allievo e assistente di Cesare Frugoni. Interrogava i pazienti: un paranoico si credeva Gesù; un uomo raccontava di aver partorito quattro gemelli di dieci chili l’uno; un altro viveva in uno stato di priapismo continuo, e disegnava ovunque maialini. «Capii che il mio mestiere non era la medicina, ma l’estetica».
Alla Scala l’aveva portato per la prima volta lo zio Ernesto: era sordo, ma se sedeva in prima fila con la trombetta d’argento riusciva a sentire qualcosa. C’era Toscanini, dirigeva il Falstaff. Gillo era promesso sposo di Lalla Gallignani, figlia di Giuseppe, un faentino legato a Verdi che l’aveva portato a Milano per dirigere il conservatorio. Alla sua morte, Toscanini divenne il tutore di Lalla. Fu lui a portarla all’altare. Dorfles lo chiamava «Artù» e lo ricordava pieno di umanità, molto alla mano; innamorato delle donne, anche troppo. Suo figlio Walter fu testimone di nozze, il ricevimento lo fecero a casa Toscanini, in via Durini, e andarono in viaggio di nozze all’Isolino, l’isola nel Lago Maggiore di sua proprietà. Dopo la guerra Dorfles rivide «Artù» a New York. Era molto stanco, ma alle prove gli errori dell’orchestra lo rinvigorivano: «Corpo di una madonaccia!» urlava gettando la bacchetta.
Aveva fatto il militare nel Nizza Cavalleria. Preferiva il Savoia, per via delle divise, ma l’impiegato a cui si era fatto raccomandare si confuse. In cavalleria non era obbligatorio il saluto fascista, con suo grande sollievo, perché detestava il Duce. Allo scoppio della guerra non fu richiamato alle armi: aveva già compiuto trent’anni. «Un testimone mi parlò di piazzale Loreto: non riuscivano a fucilare Starace, catturato in pantofole, perché c’era troppa gente, per sparargli dovettero distenderlo sopra il corpo di Mussolini. L’anatomopatologo Cattabeni, amico e collega, mi disse che dall’autopsia emerse che il Duce stava benissimo, a parte le cicatrici di un’ulcera; le malattie che gli attribuivano erano leggende. Incontrai un ebreo livornese quindicenne, sopravvissuto a Dachau e a Buchenwald: mi raccontò che erano costretti a cibarsi dei compagni morti. E vidi passare la brigata ebraica, con la stella di David ostentata con baldanza». Ma la cosa più impressionante è che Dorfles raccontava la Seconda guerra mondiale come un ricordo recente.
Eugenio Montale, che chiamava per vezzo Eusebio, gliel’aveva presentato Bazlen a Trieste. Si erano rivisti a Milano, nella sua casa di via Bigli. «Stava con la Mosca, che in realtà si chiamava Drusilla Tanzi, ed era terribilmente gelosa di lui. Teneva mia moglie per ore al telefono per lamentarsi delle rivali, fino a quando Lalla osò dire: “Ma perché non lo lasci un po’ in pace?”. Da un giorno all’altro la mia amicizia con Montale finì. Recuperammo in parte solo dopo la morte della Mosca, nel ’63».
Dorfles non aveva il mito della Milano di oggi. Non vi trovava lo slancio degli anni del dopoguerra, in cui era diventata la capitale culturale d’Italia. La sua era la Milano del design, dell’arte, dell’editoria; di Munari, Anatasio Soldati, Vittorini, «che oltretutto era un uomo affabile, a differenza di Moravia, un po’ presuntuoso».
È stato lucido sino all’ultimo giorno. Si può dire di lui quel che un tempo si diceva pietosamente un po’ di tutti: è morto di vecchiaia, si è spento. Diceva sorridendo che l’elisir di lunga vita era il cannonau, regalatogli da certi produttori sardi. Ma il suo vero segreto era la curiosità per tutto quello che è umano, il bello e il brutto, l’elegante e il kitsch, l’armonia e la mostruosità. Aveva una cortesia d’altri tempi, ma non era un superstite, semmai un Prometeo, un rivoltoso: è stato tra tutti noi l’uomo che più a lungo si è ribellato all’universale condanna della fine. Il nostro decano. La morte l’ha colto vivo; per questo è lui, non lei, ad averla avuta vinta.
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Sandro Veronesi per il Corriere della Sera
«La complessità non nuoce» è uno dei messaggi che abbiamo ricevuto da Gillo Dorfles: è il titolo dell’opera realizzata per la copertina del numero 15 de «la Lettura» del 26 febbraio 2012. Lui, l’Angelo – non solo per il suo nome – della complessità; lui che la complessità l’ha accolta in fasce all’inizio del XX secolo, e l’ha cresciuta, nutrita, curata, capita, approfondita e divulgata per più di settant’anni, incastonandola nel pensiero, nel linguaggio e soprattutto nel gusto di quattro diverse generazioni; lui che l’ha trasformata, si può dire, in un codice, un sistema di lettura della civiltà occidentale contemporanea; lui, il rivalutatore del kitsch, in base all’assunto controintuitivo secondo il quale il gusto deteriore svolge la funzione di «mezzo a contrasto» per l’individuazione della vera arte («la vera opera d’arte esiste solo in contrapposizione al kitsch»); lui, laureato in psichiatria nella Trieste austro-ungarica, laddove le impronte di Freud erano più fresche e profonde, e portavano dritte fino al mistero dell’ Unbewusstsein – l’inconscio, concetto completamente nuovo, all’epoca, e astratto, tuttora emblema della complessità assieme all’altra scoperta di quei primi anni del secolo, la Spezielle Relativitätstheorie di Einstein; lui che avrebbe potuto essere ovunque, nello spazio e nel tempo, a 102 anni, era ancora lì, dove era sempre stato, e ci teneva a farcelo sapere. «Da dove stai parlando?». «Dallo stesso posto. Non mi sono mai mosso». «E cosa ci devi dire?». «Che la complessità non nuoce».
M’imbattei in Gillo Dorfles a vent’anni, mentre disegnavo un tubo. Anzi, non stavo disegnando, stavo ritraendo un tubo: qualcosa che non mi ero mai sognato di sentirmi in grado di fare. Un pezzo di tubo di acciaio inossidabile, lucente, pieno di bagliori e di riflessi, e un foglio di carta su cui ritrarlo tale e quale – da far venire voglia di toccarlo. Rapidograph, compasso, tiralinee, aerografo, colori di china, riga e squadra: è straordinario quello che si può fare con questi oggetti, anche senza avere un dono particolare per il disegno, se si ha il maestro giusto. Il mio era Roberto Segoni, architetto, designer, grafico, semiologo e titolare della cattedra di Plastica Ornamentale alla Facoltà di Architettura di Firenze. Il concetto attorno al quale ruotava il suo corso era quello di «design della complessità», e spaziava dalla progettazione dei treni alla rappresentazione grafica di un, per l’appunto, pezzo di tubo. Fu lui, Segoni, allora nemmeno quarantenne, destinato a morire giovane (e per questo voglio ricordarlo, coi suoi capelli all’indietro, i baffoni neri da Stalin, le giacche di velluto a coste, la risata contagiosa), a insegnarmi a ritrarre quel tubo; e fu lui a introdurmi al pensiero di Dorfles, già allora decano dell’estetica moderna, maestro dei maestri. L’architettura moderna e Il divenire delle arti erano già presenti nella libreria di mio padre, laureato in ingegneria negli anni Cinquanta: vi si aggiunsero L’intervallo perduto, Il disegno industriale e la sua estetica e Il kitsch: antologia del cattivo gusto – e così, leggendo le opere di Gillo Dorfles mentre imparavo a fare il ritratto di un tubo d’acciaio, mi accorsi per la prima volta che la complessità non nuoceva.
A mano a mano che la mia formazione si completava, grazie a nuovi maestri che indicavano Dorfles come il loro maestro, venivo a contatto con la sua inesauribile capacità di coniugare tra loro le cose del mondo. La pittura (la sua, l’astrattismo geometrico del Mac, l’opera di Bruno Munari, Luigi Veronesi, Anastasio Soldati, Claudio Costa), il disegno industriale, la linguistica, l’internazionalismo, la moda, la fotografia, la pubblicità… Fatico a ricordare un solo corso universitario che non indicasse in bibliografia qualche sua opera. E la cosa che appariva straordinaria già allora – si parla di 35 anni fa – era che questo cardine della nostra cultura aveva più di settant’anni, era vecchio, ma continuava instancabilmente a esplorare le forme e i linguaggi che venivano prodotti dal suo tempo, ad associare, decifrare, smascherare, scoprire, mostrare, dipingere, scrivere, spiegare.
Be’, com’è andata a finire lo sappiamo. Gillo Dorfles ha continuato, continuato, continuato oltre ogni limite umano a essere ciò che è sempre stato – «laico, senza pregiudizi, senza retorica, artista dell’eterno presente», come lo ha definito Achille Bonito Oliva; ha continuato e continuato a parlarci dallo stesso posto, cioè dal cuore fondente della complessità del nostro tempo, e da lì ha continuato a rassicurarci sulla sua non nocività; ha talmente continuato a farlo da renderci tutti contemporanei, allievi e maestri, colti e incolti, volenti e nolenti, vivi e morti – e soprattutto, da rendere anacronistica perfino la propria morte.
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Dario Pappalardo per la Repubblica
Nel 1968 – l’anno che disordina la storia – Gillo Dorfles mette ordine nel caos dell’estetica contemporanea. Lo fa pubblicando un saggio con in copertina un’illustrazione volutamente improbabile, che oggi definiremmo “vintage”: una figura femminile d’altri tempi anche per gli anni Sessanta – una simil-musa nuda e coperta appena da un velo trasparente, che imbraccia un violino. Sullo sfondo: un mare blu con due barche a vela. È Il Kitsch. Antologia del cattivo gusto, libro uscito dall’editore Gabriele Mazzotta, che, in Italia, e non solo, inizia a dare il nome alle cose. Perché “le cose” (che è anche il titolo del romanzo di Georges Perec della stessa epoca) sono proprio cambiate, ma la critica italiana, imbevuta di estetica crociana, non l’ha ancora detto. Invece Dorfles, nel 1965, in Nuovi riti, nuovi miti, scrive: «Se un tempo l’estetica era considerata come una disciplina rivolta all’analisi del “bello”, oggi riflette piuttosto le innumerevoli concatenazioni che si svolgono tra i segni non solo dell’arte, ma di molti altri generi di comunicazione. In altre parole, dobbiamo ammettere che oggi esiste un vasto settore decisamente incombente e interessante le nostre percezioni visive (e in parte auditive) che può non essere di qualità artistica. Sicché l’intero edificio di un’estetica odierna… deve far i conti con l’ipotesi di accettare nel proprio territorio, anche elementi meta-artistici o addirittura anti-artistici».
Ecco, mettendo al bando ogni snobismo, il critico triestino getta la spugna: non possiamo non fare i conti con il kitsch.
Dorfles, forte delle sue esperienze negli Stati Uniti, delle conferenze negli anni Cinquanta alla Case Western Reserve University e al Cleveland Museum, in Ohio, aggiornato sugli studi del critico americano Clement Greenberg (autore di Avant- garde and Kitsch)
propone nella sua antologia sessantottina una tassonomia del kitsch che oggi può sembrare scontata. Ma che nel 1968 non lo era affatto. Kitsch sono gli oggetti realizzati su vasta scala in cui l’effetto estetico prevale sulla funzione: i tanto vituperati “nanetti in cotto dei giardini” ne sono l’emblema. Così come le false statue classiche, i souvenir, ma anche «i filmetti rosa, i romanzetti d’appendice, i fumetti fotografici…».
Il kitsch diventa l’espressione del gusto di massa, nel momento in cui l’arte ha rinunciato al grande pubblico per parlare soltanto a un’élite.
Mentre Warhol cerca di sanare questa frattura, inventando la Pop Art, Dorfles la denuncia e invita finalmente la critica a non sottovalutare quei nanetti.