Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2018  marzo 03 Sabato calendario

Se la Jihad risorge dall’Africa

L’attacco nella capitale del Burkina Faso conferma le peggiori previsioni: è l’Africa il nuovo incubatoio del jihadismo. L’operazione scattata ieri nel centro di Ouagadougou ha preso di mira soprattutto l’ambasciata francese e il comando dell’esercito, lasciando a terra una trentina di morti e novanta feriti. Un assalto pianificato con cura: dopo l’esplosione di alcune autobombe, diversi gruppi sono entrati in azione, scatenando una battaglia durata ore. È il terzo attentato eclatante messo a segno in un Paese poverissimo che fino al 2015 non aveva mai conosciuto la violenza di matrice religiosa, nonostante metà degli abitanti siano musulmani e un terzo cristiani. Come nel resto del continente, il fondamentalismo armato si diffonde seguendo le antiche carovaniere del deserto, dal Sahel al Maghreb fino alle coste del Mediterraneo: le stesse strade su cui si incanala una marea di disperati che sogna di raggiungere l’Europa.
Contrariamente a quanto accaduto in Medio Oriente, qui le diverse sigle che fanno riferimento ad Al Qaeda e all’Isis collaborano, almeno nel raggiungimento degli obiettivi.
L’epicentro è la regione settentrionale del Mali, da cui partono predicatori d’odio e squadre combattenti: gli attacchi sono i manifesti, seguiti dal proselitismo tra le comunità islamiche. Con un disegno strategico da incubo: collegare l’insurrezione nigeriana di Boko Haram con i gruppi qaedisti attivi in Algeria, Tunisia e Libia, fino a creare un colossale territorio jihadista in tutta l’Africa Occidentale.
I primi a reagire sono stati i francesi, che nel 2012 sono intervenuti contro la ribellione islamica in Mali allargando poi l’operazione a cinque Paesi del Sahel con l’impiego di tremila soldati. Al loro fianco c’è una crescente attività statunitense e alcuni contingenti europei, inclusa la missione italiana che sta prendendo posizione in Niger. In tutto, si tratta di circa 5.000 militari occidentali, che si dedicano in prevalenza ad addestrare eserciti e polizie locali.
Impedire che il Sahel diventi la terra del nuovo Califfato è un compito che spetta all’Europa. Non solo nella repressione, ma soprattutto nell’imprimere uno sviluppo economico rapido. Il jihadismo si nutre delle storiche divisioni tribali e della povertà di questi Paesi, cavalcando l’insofferenza popolare per la cleptocrazia dei governi, che divorano le risorse e gli aiuti internazionali. Se la presenza europea sarà solo militare, finirà per apparire come una riproposizione moderna del colonialismo, amplificando così il messaggio fondamentalista.
È necessario invece che l’intervento si trasformi in benessere per tutta la popolazione, trasmettendo un segnale concreto di cooperazione.
L’Ue sembra avere chiaro il nodo della questione. Una settimana fa a Bruxelles, oltre ai 500 milioni per il potenziamento delle forze armate del Sahel, è stato rilanciato il piano di aiuti che prevede sei miliardi di euro entro il 2022: fondi da dividere in cinquecento progetti che generino lavoro, formazione, crescita. È questa la grande sfida: tenere la corruzione lontano dal tesoro e far diventare quest’ultimo la sorgente dello sviluppo africano. Solo così si potranno fermare la ferocia jihadista e le nuove ondate migratorie.