la Repubblica, 3 marzo 2018
Se la Jihad risorge dall’Africa
L’attacco nella capitale del Burkina Faso conferma le peggiori previsioni: è l’Africa il nuovo incubatoio del jihadismo. L’operazione scattata ieri nel centro di Ouagadougou ha preso di mira soprattutto l’ambasciata francese e il comando dell’esercito, lasciando a terra una trentina di morti e novanta feriti. Un assalto pianificato con cura: dopo l’esplosione di alcune autobombe, diversi gruppi sono entrati in azione, scatenando una battaglia durata ore. È il terzo attentato eclatante messo a segno in un Paese poverissimo che fino al 2015 non aveva mai conosciuto la violenza di matrice religiosa, nonostante metà degli abitanti siano musulmani e un terzo cristiani. Come nel resto del continente, il fondamentalismo armato si diffonde seguendo le antiche carovaniere del deserto, dal Sahel al Maghreb fino alle coste del Mediterraneo: le stesse strade su cui si incanala una marea di disperati che sogna di raggiungere l’Europa.
Contrariamente a quanto accaduto in Medio Oriente, qui le diverse sigle che fanno riferimento ad Al Qaeda e all’Isis collaborano, almeno nel raggiungimento degli obiettivi.
L’epicentro è la regione settentrionale del Mali, da cui partono predicatori d’odio e squadre combattenti: gli attacchi sono i manifesti, seguiti dal proselitismo tra le comunità islamiche. Con un disegno strategico da incubo: collegare l’insurrezione nigeriana di Boko Haram con i gruppi qaedisti attivi in Algeria, Tunisia e Libia, fino a creare un colossale territorio jihadista in tutta l’Africa Occidentale.
I primi a reagire sono stati i francesi, che nel 2012 sono intervenuti contro la ribellione islamica in Mali allargando poi l’operazione a cinque Paesi del Sahel con l’impiego di tremila soldati. Al loro fianco c’è una crescente attività statunitense e alcuni contingenti europei, inclusa la missione italiana che sta prendendo posizione in Niger. In tutto, si tratta di circa 5.000 militari occidentali, che si dedicano in prevalenza ad addestrare eserciti e polizie locali.
Impedire che il Sahel diventi la terra del nuovo Califfato è un compito che spetta all’Europa. Non solo nella repressione, ma soprattutto nell’imprimere uno sviluppo economico rapido. Il jihadismo si nutre delle storiche divisioni tribali e della povertà di questi Paesi, cavalcando l’insofferenza popolare per la cleptocrazia dei governi, che divorano le risorse e gli aiuti internazionali. Se la presenza europea sarà solo militare, finirà per apparire come una riproposizione moderna del colonialismo, amplificando così il messaggio fondamentalista.
È necessario invece che l’intervento si trasformi in benessere per tutta la popolazione, trasmettendo un segnale concreto di cooperazione.
L’Ue sembra avere chiaro il nodo della questione. Una settimana fa a Bruxelles, oltre ai 500 milioni per il potenziamento delle forze armate del Sahel, è stato rilanciato il piano di aiuti che prevede sei miliardi di euro entro il 2022: fondi da dividere in cinquecento progetti che generino lavoro, formazione, crescita. È questa la grande sfida: tenere la corruzione lontano dal tesoro e far diventare quest’ultimo la sorgente dello sviluppo africano. Solo così si potranno fermare la ferocia jihadista e le nuove ondate migratorie.