Corriere della Sera, 4 marzo 2018
«Ho fatto a botte tante volte, anche quando ero magistrato. I tormenti di un caso irrisolto». Intervista a Gianrico Carofiglio
Gianrico Carofiglio, il suo nuovo libro sulla politica si intitola «Con i piedi nel fango». Perché?
«È una frase di Orwell: i pensatori della politica hanno la testa tra le nuvole o i piedi nel fango. Io preferisco chi si sporca. Non come i corrotti; come i soccorritori di una alluvione».
Come andranno le elezioni?
«Berlusconi e Renzi trattano da un anno e mezzo. Faranno il governo insieme. Maroni porterà via un pezzo di Lega e parteciperà al gioco. La sinistra sarà marginalizzata, purtroppo».
E i 5 Stelle?
«Si sfalderanno. Un po’ di quelli che hanno imbarcato andranno dall’altra parte. In Europa saranno sollevati. Non è uno spettacolo entusiasmante. Ma è preferibile ad altri spettacoli terrificanti».
Lei è stato senatore pd. Un partito messo male.
«Non sono ostile a Renzi. La cosa surreale è che sta andando a perdere le elezioni dopo un quinquennio di successi. Il Paese va meglio, sul piano interno e internazionale».
Perché allora Renzi è in difficoltà?
«Per la comunicazione, che è sostanza. Come la racconti è come è. Il suo vizio di personalizzare ha creato un bersaglio facile».
Si annuncia una forte astensione.
«Votai per la prima volta nel giugno 1979, pochi giorni dopo aver compiuto diciotto anni. L’affluenza superò il 90%. Abbiamo perso il primato mondiale di democrazia per colpa di una politica che non produce senso di appartenenza».
Lei nel libro non fa un bilancio negativo dei cinque anni al Senato.
«Non ho nessuna ostilità per la politica; andrebbe fatta con allegria. Provo fastidio per i politici che assumono l’atteggiamento di chi avrebbe altro da fare. Il potere non è cattivo, se lo usi per cambiare le cose. Infatti mi piaceva fare il magistrato, che è un’altra forma di potere».
Lei però descrive i parlamentari come tormentati dall’angoscia.
«Arrivano in Parlamento da assessori o sindaci; ritrovarsi a premere pulsanti induce frustrazione. È un ciclo. I primi giorni provi una forma di eufori a, cui segue una fase depressiva. Poi subentra l’abitudine. Infine si entra nel periodo nero».
Che storia ha la sua famiglia?
«Nonna Italia fu una delle prime siciliane laureate. Al liceo aveva allievi più grandi di lei. Era di Pachino ma abitava a Catania, a casa dei Brancati. Vitaliano, lo scrittore, era un bambino, nonna lo chiamava Talianuzzu. Poi sposò un poliziotto di Potenza e si trasferì a Bari».
E la famiglia paterna?
«Nonno Giovanni era capitano di navi, sempre in giro per il mondo. Uomo fortunato: durante la guerra andò per tre volte in licenza, e per tre volte la nave che comandava venne bombardata e affondata. I marinai cominciarono a chiedere la licenza quando la chiedeva lui».
Lei è stato campione di karate.
«Vinsi i regionali a Taranto, battendo in semifinale il campione locale: rischiai di affrontare pure gli spettatori. Poi sono stato due volte campione nazionale a squadre».
Com’era da ragazzo?
«Lo sfigato dei film. La violenza nasce sempre dall’inadeguatezza. Ho accettato di combattere perché non ero abbastanza sicuro di me per girarmi e andarmene. All’inizio ci si diceva: “Andiamo nel portone”. Ma era solo lotta, sopraffazione. Ricordo bene la volta in cui passammo ai calci e ai pugni».
Si narra di un suo scontro con un fascista.
«Andò male per lui. Lì diventai famoso nella scuola. Magro magro, non avevo l’aria del picchiatore; in realtà mi allenavo da anni. Lui invece aveva fama di duro. Finì in modo diverso da come si immaginava».
È vero che si è battuto con balordi che poi da magistrato ha fatto arrestare?
«È vero. Le palestre oggi sono posti più tranquilli, ma allora erano frequentate anche da soggetti che poi hanno commesso reati gravi: droga, mafia. Alcuni mi hanno riconosciuto. L’avvocato di un mafioso mi portò dieci libri da dedicare. Un boss cui ho fatto dare 26 anni mi ha mandato i saluti. Vado spesso a presentare i romanzi nelle carceri».
La Bari della sua giovinezza era violenta.
«Ricordo scontri tra bande rivali di inaudita violenza. Negli occhi brillava una luce omicida. In una rissa a bottigliate prevalse un tipo basso, insignificante: il più cattivo. È incredibile fin dove possa scendere un essere umano. Ho pensato allo spettacolo orribile che devo aver dato io qualche volta».
Come ne è uscito?
«Le arti marziali mi hanno cambiato la vita. Mi hanno aiutato a convivere con il senso di inferiorità che avevo da ragazzino. Gli sport da combattimento sono metafore istruttive. Offrono molti spunti per decifrare le situazioni dell’esistenza».
Ha fatto a botte anche da magistrato?
«Ero pretore a Firenze. In due tentarono di rubare la borsetta a una collega, vicino al Duomo. Il primo mi disse: “Ti spezzo tutte le ossa” e mi si gettò contro. Lì mi sono ricordato dei vecchi insegnamenti: usa la forza del tuo avversario contro di lui. Se sping e, tiralo. Se tira, spingi. Così l’ho scaraventato in un bar, con un gran frastuono di tavoli rovesciati. I carabinieri erano ammiratissimi. Mentre facevo la deposizione venivano a congratularsi: “Dotto’, ma la pistola ce l’aveva?”».
Aveva la pistola?
«L’ho avuta dopo, in tempi più difficili, quando mi occupavo di mafia. Ho vissuto sei anni sotto scorta».
Quanto conta la mafia in Italia?
«Molto meno di 25 anni fa. In alcune zone è stata sradicata in un modo che pareva impossibile. Nel ’91 ci furono 1.961 omicidi; nel 2016 solo 390. Siamo tra i Paesi più sicuri al mondo. Polizia e magistratura sono tra le più efficaci».
Ma la mafia non è sconfitta.
«In alcune zone è ancora fortissima. Come in Calabria, per la natura molecolare della ‘ndrangheta. Capace di riprodursi ovunque».
Quanto conta la massoneria?
«Non lo so. Mi proposero di entrarci. Erano gruppi pittoreschi, legati al passato. Forse non ho incontrato quelli davvero potenti».
Lei ha teorizzato l’arte dell’interrogatorio.
«La premessa è il rispetto: stai inducendo qualcuno a fare una cosa che gli causerà anni di carcere. Devi attenuare il peso della colpa: mai dire “l’omicidio” o “lo stupro”, ma “il fatto”. Proiettare parte della responsabilità sull’esterno, i complici, il contesto sociale. E prospettare incentivi etici, come le attenuanti generiche. Trasmettere l’idea che parlare conviene».
Anche entrando in empatia con il colpevole?
«Sì. Empatia non significa essere d’accordo con chi ti sta di fronte, ma saper vedere le cose come chi ti sta di fronte. Ha a che fare pure con la politica e con la buona scrittura».
Com’è diventato scrittore?
«Stavo andando in ufficio. Davanti al teatro Margherita, chiuso da anni, immaginai in trenta secondi una storia. All’improvviso il senso della città era mutato. Ho percepito allora il cambiamento sotterraneo necessario per cominciare a scrivere. Sono stato il primo a pensare Bari come un luogo romanzesco».
Oggi Bari e la Puglia sono di gran moda.
«Modugno si vergognava di essere pugliese, si fingeva siciliano. Ora andiamo a ruba. È un posto interessante in cui succedono un sacco di cose. Merito anche di qualche amministratore. Vendola i primi 5 anni ha fatto bene».
Emiliano?
«Mi faccia un’altra domanda».
Non funziona così. Eravate amici.
«Andammo insieme in macchina a Roma a dare l’esame da magistrato. Sì, siamo stati amici. È stato deludente sul piano politico e sul piano personale. Non aggiungo altro».
Checco Zalone le piace?
«È molto intelligente. Tratta cose volgari senza essere volgare».
E Cassano, il calciatore?
«Ho arrestato suo cugino Giovanni, detto Giuan U Nane, specializzato nel calcio volante al petto con cui stendeva avversari alti mezzo metro più di lui».
A Bari si racconta che ancora di recente lei ne ha stesi tre…
«Mi aggredirono per strada. Balordi. Si avvicinarono, e non per parlare. Esercitai la legittima difesa: Salvini sarebbe fiero di me. Ma sono passati 15 anni».
È stata l’ultima volta che ha fatto a botte?
«Sì. Ho imparato a prevenire. Una sera un camionista ubriaco mi diede uno spintone. Mi spostai, cadde. Non lo toccai neanche».
Nel suo primo libro, «Testimone inconsapevole», racconta di un bambino scomparso. È vero che si ispirò a una sua antica indagine?
«Non fu una scelta. Era un fiume carsico che emergeva. Il senso terribile di frustrazione che mi sono portato dietro per questo caso».
Quale caso?
«Un’indagine che prese una direzione errata. Era scomparsa una bambina, Maria Mirabela. Due poliziotte di origine rom sbagliarono a tradurre le intercettazioni. L’attenzione fu deviata sui genitori. Invece Maria era stata presa da qualcun altro, e soffocata in un tentativo di violenza».
Da chi?
«Feci sorvegliare il posto in cui avevamo trovato il corpo. I responsabili di reati sessuali spesso tornano sul luogo del fatto, per ricreare il senso di eccitazione della violenza, del dominio. Dopo qualche giorno trovammo uno che si masturbava. Era un medico. Lo interrogai per tutta la notte. Ci fu un momento in cui mi dissi: forse sto parlando troppo con lui. Feci perquisire il suo appartamento: tutto pulito. Stavamo per andarcene, quando notammo una stanza a fianco: era la casa degli orrori; secchi di urina, libri di magia nera. Credo che avesse abusato di altre bambine. Andò a giudizio per atti osceni, ma non riuscimmo a incastrarlo per omicidio. Sono tuttora convinto che il colpevole fosse lui».