Corriere della Sera, 4 marzo 2018
Dal rap a Weinstein. Le strategie del legale che salvò pure DSK
WASHINGTON Nella festa degli Oscar di stasera bisogna solo capire quante attrici, quante star attaccheranno il grande assente, il produttore Harvey Weinstein. Di sicuro, nessuno lo difenderà. Nessuno, tranne il suo nuovo legale, Benjamin Brafman, che ha dichiarato in un’intervista al Times di Londra: «Se una donna decide che ha bisogno di fare sesso con un produttore di Hollywood per far avanzare la propria carriera ed effettivamente ci riesce, allora può giudicare offensiva l’intera faccenda, ma certamente non può parlare di stupro».
Nell’autunno del 2017, conversando con la rivista New Yorker, Brafman, 69 anni, aveva confessato di sentirsi «più solo che a Fort Alamo». È diventato uno degli avvocati più famosi del Paese accettando incarichi impossibili, difendendo gangster della mafia, come il boss Salvatore Gravano, detto «Sammy The Bull», oppure spregiudicati truffatori, come Martin Shreli, che aumentò di 56 volte il prezzo di un farmaco, meritandosi, nel 2015, il titolo «di uomo più odiato d’America».
Brafman, però, in quei mesi sentiva che si stava chiudendo l’epoca dei processi spettacolari, con le aule trasformate in set televisivi, con gli imputati-celebrità, le arringhe appassionate e le giurie divise tra istinto e razionalità. Benjamin è nato a Brooklyn ed è cresciuto nel Queens. Figlio di ebrei sopravvissuti all’Olocausto ed emigrati prima a Cuba e poi negli Stati Uniti. Ha studiato in una scuola ebraica e si è laureato in legge nella Northern University College of Law nell’Ohio, specializzandosi quindi nella New York University School of Law.
Sbarca a Manhattan nel 1980, mettendosi subito in proprio. Intelligenza e ironia veloci e fulminanti, applicate innanzitutto alla sua statura, 1,67 centimetri: «Sono solo un piccolo ebreo». Ebreo ortodosso. Ambizioso e disinvolto. Si fa strada raccogliendo i clienti evitati da tutti gli altri. Ma è tutt’altro che un avvocato delle cause perse. Entra per un breve periodo nel collegio difensivo di Michael Jackson, accusato di abusi sessuali su minori. Ma l’anno chiave è il 1999, quando riesce a fare assolvere Sean «P. Diddy Combs». Il cantante e musicista rap aveva scatenato una rissa in un nightclub, insieme con la sua fidanzata del momento, Jennifer Lopez.
Combs viene imputato per corruzione e possesso illegale di armi. In udienza l’accusa schiera oltre cento testimoni. Brafman li smonta uno a uno. Le sue quotazioni raggiungono il massimo. Rappresenta in giudizio Plaxico Burress, star del football e, nel 2011, l’ex direttore del Fmi, Dominique Strauss-Kahn. Il politico francese finisce nei guai per aver molestato una cameriera nello Sheraton Hotel in piena Manhattan. Viene arrestato, mentre è già sull’aereo. Sembra un caso segnato. E invece, il «piccolo» Benjamin convince il procuratore di New York, Cyrus Vance a far cadere l’imputazione. Abuso di potere, senso dell’impunità: sono le stesse chiavi della vicenda Weinstein. È l’incarico forse più difficile anche per la toga più esperta. Qui non si processa solo «un» predatore sessuale, accusato da decine di donne, ma un’idea, un codice culturale di prevaricazioni, di ricatti. Il tentativo di Brafman è proprio quello di spezzare questo meccanismo: «Il divano del produttore a Hollywood non è certo un’invenzione di Weinstein». Ma questa volta sembra davvero «Fort Alamo».