Corriere della Sera, 3 marzo 2018
Romanzo popolare
Tutti conoscono la storia della formula segreta della Coca Cola conservata in cassaforte nel quartier generale dell’azienda di bibite gasate ad Atlanta. È meno conosciuta invece, la storia del paio di Levi’s più antichi del mondo, una salopette da lavoro del 1879. Riposano in una cassaforte nel quartier generale dell’azienda. A temperatura e umidità controllate, e soltanto due persone conoscono la combinazione. Questi jeans sono rimasti attraverso i secoli in condizioni ammirevoli: niente dimostra meglio di quella salopette che i pantaloni in Denim, come diceva una vecchissima pubblicità, sono «pantaloni fatti per lavorare».
Il capo più democratico e popolare è nato in realtà per esser indossato da vaccari della California, manovali del Montana, operai dell’industria petrolifera in Oklahoma. E i capi da lavoro di allora sono pepite d’oro per i collezionisti, alle aste specializzate e nei negozi vintage di lusso. Paradosso? Certo. Ma è archeologia della moda che racconta – anche – quello che succede oggi, la cultura underground globale dei ragazzi che amano i blue jeans rigidi, non lavati cioè in fabbrica, con la cimosa che denota la produzione artigianale su telai d’epoca. I jeans più costosi del 2018, i nuovi ovviamente, sono quasi sempre jeans che ripropongono i metodi di produzione della fine dell’Ottocento. Almeno in quel caso, è un artigianato che continua a vincere.
Il Museo di Palazzo Reale di Genova ha organizzato per Fiere di Parma, insieme al Museo della Seta di Como, una esposizione sulla tela blu di Genova (Jeans), dalle sue origini fino all’inizio del XX secolo: otto bacheche che raccontano le radici del nome, le tecniche di tintura, la passione per questo tessuto da parte di personaggi come Giuseppe Garibaldi fino all’uso da parte dei camalli del Porto di Genova. Il jeans prende – forse – il nome da una anglicizzazione di «Genova», secondo alcuni storici, ma in ogni caso anche se così esattamente non fosse, bisogna dire che l’Italia nel romanzo di questo tessuto ha ricoperto un ruolo fondamentale. Sono italiane aziende storiche della produzione del capo, come la toscana Roy Rogers. E tantissime altre aziende di casa nostra hanno prodotto Denim per marchi italiani e, soprattutto, stranieri. Proprio ora che la produzione americana del jeans made in Usa conosce un calo (sta per chiudere lo stabilimento storico Cone Mills che nel corso dei decenni ha prodotto alcuni dei jeans americani più famosi), il Giappone e l’Italia resistono nel ristretto club della produzione del Denim di alto livello.
D’altronde, se il jeans è davvero «il blu di Genova», non stupisce che questa tela sia stata utilizzata con assiduità dai camalli, gli scaricatori del porto del capoluogo ligure: in mostra ci sarà una foto di gruppo del 1910 in cui compare, terzo da destra, Bartolomeo Pagano, primo Maciste del Cinema Italiano, con i jeans. Hipster ante litteram? No, lavoratore. Ma è stato proprio il workwear, insieme con le divise militari, a creare la sintassi della maggior parte dell’abbigliamento casual maschile da inizio Novecento a oggi.
E poi bisogna considerare che senza i jeans in un certo senso non sarebbe nata l’Italia: al Museo Centrale del Risorgimento, a Roma, è esposto il paio indossato da Garibaldi nella spedizione dei Mille.
E non è tutto. Una ricerca IbisWorld ha scoperto che il mercato degli abiti di seconda mano negli Stati Uniti è in netta crescita e nel 2017 ha superato la cifra di 20 miliardi di dollari. È il cosiddetto «resale market» alimentato dai millennial, più frugali dei loro fratelli e sorelle maggiori (sono nati in un mondo più complicato). Vuol dire che i jeans di seconda mano, o di terza, il Denim usato che quando viene usato nel modo giusto diventa ancora più bello, è destinato a avere un successo ulteriormente crescente nei prossimi anni. È un dato che fa riflettere le grandi aziende del lusso, ma che dovrebbe consolare chi ama un tessuto nobile e umile come questo. Che resiste al passare delle mode, delle stagioni. Dei secoli.