La Stampa, 3 marzo 2018
Intervista a Charlotte Rampling: Nella vita è inutile avere rimpianti. I premi? Mi fanno tornare bambina
Il tempo è dalla sua parte. A differenza di molte altre attrici coetanee Charlotte Rampling continua a recitare, incarnando personaggi creati da registi spesso giovani e raccogliendo premi ovunque, l’ultimo alla Mostra di Venezia 2017 per il ruolo di Hannah nel film omonimo di Andrea Pallaoro. Non ha timori nel mostrarsi per come è adesso, nuda o vestita, nei primi piani inclementi, senza trucco, spettinata. A differenza di colleghe coetanee è riuscita a non farsi inghiottire dal buio dei momenti più duri della vita. Eppure ne ha avuti tanti, la depressione, il suicidio della sorella Sarah. Al fascino provocatorio, alla cifra ambigua del suo sex-appeal, Rampling ha aggiunto rigore e severità, caratteristiche con cui, forse, è difficile convivere, ma che, su di lei, stanno benissimo. Come quelle bretelle da uomo, indossate sul torace nudo, nell’immagine più celebre del «Portiere di notte» di Liliana Cavani.
Che cosa la guida nella scelta dei suoi ruoli?
«Quello che amo di più è fare film che mi diano la possibilità di esprimere me stessa. Girando “Hannah” è successo in un modo profondo, che non avevo mai sperimentato prima. Non mi interessa l’intrattenimento, vorrei poter continuare a lavorare sempre con registi come Pallaoro».
Pensa che esista ancora un pubblico in grado di apprezzare un cinema audace, non convenzionale?
«Credo che gli spettatori abbiano a disposizione una grande varietà di generi, i film indipendenti, i kolossal, le piccole produzioni. E quindi siano liberi di scegliere tra l’evasione pura e qualcosa di più intellettuale. In questo il cinema non è cambiato».
Il personaggio che interpreta in «Hannah» parla pochissimo, e della sua storia non si sa molto. Calarsi nei suoi panni non deve essere stato facile.
«I film sono sempre dei registi, e noi attori dobbiamo seguirne la visione. Non ho mai pensato di poter accampare diritti su chi ha diretto i film in cui ho recitato. Andrea ha deciso che non si conoscessero, nei particolari, le vicende della protagonista. La cosa più importante del film è il tono, e io ho lavorato su quello, cercando di entrare nella mente di Hannah, di capirla fino in fondo. E poi nella maggior parte dei film si parla tanto, io, invece, preferisco il silenzio».
Si è affidata a un regista al secondo film, cosa l’ha convinta?
«Ho conosciuto Andrea tre anni prima di iniziare a girare, cercava finanziamenti per realizzare “Hannah”, nel frattempo mi ha parlato tanto del suo progetto, di un ritratto di donna che ho trovato subito intrigante».
È apparsa in oltre 120 pellicole, ha mai sentito il desiderio di passare dietro alla macchina da presa?
«Non so, è un’ipotesi che non escludo. Anzi, forse ci ho pensato, ma il momento non è ancora arrivato».
Ha già in mente un soggetto?
«Non proprio, ma ho delle idee che potrebbero diventarlo».
L’Italia ha avuto un ruolo cruciale nella sua carriera. Ha girato con autori celebrati, oltre alla Cavani, Luchino Visconti, Gianfranco Mingozzi, Giuseppe Patroni Griffi. Che rapporto ha con il nostro Paese?
«Dell’Italia mi ha colpito immediatamente la bellezza, e poi, da quando ho iniziato a lavorarci, sono stata avvolta da un clima particolare, che si respira solo qui, e che è fatto di tante cose, dalla piacevolezza del modo di vivere alla straordinaria creatività degli artisti. I miei ricordi italiani sono molto intensi, a iniziare da quello legato al mio primo regista, Gianfranco Mingozzi, che mi fece recitare in “Sequestro di persona”. Avevo 21 anni».
Ha lavorato anche con Adriano Celentano, personaggio un po’ folle, lontano dal gotha cinematografico in cui si è formata. Come andò?
«Ho rivisto di recente “Yuppi du”. Celentano è una persona straordinaria, e non mi è sembrato affatto folle. Ha un modo tutto suo di dirigere, molto personale, lavorare con lui fu un’esperienza fantastica».
E con gli altri, Patroni Griffi, Liliana Cavani, come si è trovata?
«Patroni Griffi era delizioso, qualunque cosa con lui era possibile. Con Liliana ho avuto un rapporto diverso, per me è stata come un’insegnante. Sono rimasta in contatto con i registi italiani che mi hanno diretta, spesso siamo diventati amici, ci siamo continuati a frequentare».
Che cosa significa per lei essere attrice?
«Significa soprattutto non essere sola, entrare a far parte di un gruppo di persone e condividere lo stesso cammino. È il modo con cui ho iniziato da giovane, e la mia relazione con l’Italia ha a che vedere con questa sensazione di calore e di reciproco sostegno. Forse l’impronta viene da lì, e ancora adesso è questo l’aspetto del cinema che per me conta di più. Un dato che nei piccoli film è molto marcato, meno soldi, meno gente sul set e più vicinanza. Per questo li amo».
Che cosa pensa del movimento «Me Too» e di tutto quello che ha scatenato il caso Weinstein?
«Penso che la mobilitazione sia giusta e abbia ottime ragioni per esistere. Soprattutto se spinge le persone a dire quello che hanno da dire, a parlarne, a confrontarsi».
Negli ultimi anni ha ricevuto una serie di riconoscimenti importanti, l’ultimo è la Coppa Volpi, ma ci sono stati anche l’Orso d’argento a Berlino per l’interpretazione in «45 anni», il premio alla carriera agli Efa, la candidatura agli Oscar di un anno fa. Che cosa rappresentano per lei i premi?
«Naturalmente mi rendono felice. Ma c’è dell’altro. Ritrovarmi giudicata ed eventualmente premiata alla mia età mi fa sentire come se tornassi bambina».
Ha rimpianti?
«No, non mi sono mai soffermata su cosa sarebbe potuto accadere se avessi preso una decisione piuttosto che un’altra. Ho fatto quello che ho fatto, e va bene così, i rimpianti sono inutili».