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 2018  marzo 03 Sabato calendario

Intervista a Antonio Gozzi: A rischiare sarà soprattutto l’Europa. Avremo milioni di tonnellate sotto costo

L’impatto diretto dei dazi Usa sulla nostra industria siderurgica potrebbe essere minimo, il contraccolpo sull’Europa invece rischia di essere molto pesante. Perché di fronte ad una guerra commerciale noi europei siamo i più indifesi», avverte il presidente di Federacciai, Antonio Gozzi. «Rischiamo di esser invasi da milioni di tonnellate d’acciaio prodotte in dumping nel Sudest asiatico», proprio nel momento in cui grazie alla ripresa mondiale la nostra industria siderurgica si è messa a correre. Solo a gennaio la produzione ha infatti superato il tetto dei 2 milioni di tonnellate con un aumento del 5,3%, l’incremento più alto registrato tra tutti i grandi produttori europei.
Presidente, che giudizio dà dell’iniziativa di Trump?
«Per esprimere un giudizio compiuto bisogna capire quale sarà in dettaglio la misura che verrà presa. Per adesso non è chiaro, perché si ragiona su un dazio generalizzato del 25%, un intervento su quote oppure sui singoli paesi».
Ma noi italiani cosa rischiamo?
«Gli Stati Uniti non contano tanto per le nostre esportazioni. L’anno scorso mettendo assieme tutte le tipologie di prodotto abbiamo esportato negli Usa 505mila tonnellate di acciaio su una quota di export che oscilla sempre tra i 10 ed i 15 milioni di tonnellate. Questo perché è da tempo che gli americani proteggono i loro mercati».
Quale può essere l’impatto dei nuovi dazi Usa?
«Su un consumo annuo di 110-120 milioni di tonnellate gli Usa ne importano ogni anno circa 24 milioni. Di questi sembra siamo interessati dalle nuove misure circa 13,5 milioni di tonnellate. Per cercare di aggirare il problema del Wto, perché è chiaro che questa vicenda finirà davanti all’organizzazione mondiale del commercio, evocano le norme sulla protezione della sicurezza. Ma è una motivazione ridicola, perché di tutto l’acciaio importato negli Usa, appena 3-400mila tonnellate sono destinate alla produzione di armamenti, navi e altri mezzi destinati alla difesa».
E l’Europa cosa rischia?
«La preoccupazione dell’Europa e quindi anche dell’Italia – che poi dei mercati europei è quello più aperto e più importante per le importazioni, perché abbiamo una filiera di trasformazione del metallo che è la più grande d’Europa e mangia tanto acciaio – è dove andranno a finire questi 13 milioni e mezzo di tonnellate che gli Usa non prenderanno più. Ammesso e non concesso che i nuovi dazi non riguardino l’Europa, ma altri grandi paesi siderurgici come il Sudest asiatico e l’Ucraina».
E dove “picchierà” questa produzione?
«È probabile che picchi in Europa. Perché nel campo dei commerci siamo l’area più debole del mondo».
In uno scenario di guerra di dazi andrebbe poi anche peggio...
«È uno scenario da non augurarsi perché noi siamo per i mercati aperti, ma soprattutto è da non augurarsi perché di fronte alle guerre commerciali l’Europa ha sempre dimostrato di essere quella meno capace di difendersi. Perché la posizione europea, molto di principio, è influenzata dai paesi nordici non industriali che sentono meno l’esigenza di proteggere i loro settori industriali».
Rischiamo di essere invasi dall’acciaio asiatico?
«Esatto. Acciaio che talvolta arriva in dumping. L’Europa aveva una regola molto semplice e chiara che distingueva tra economie “di mercato” ed economie “non di mercato” facendo riferimento a quattro parametri molto ben definiti e facili da individuare. Poi è stata annacquata e ora a decidere sulla possibilità di prendere o meno misure antidumping è la Commissione sulla base di un’analisi discrezionale fatta dagli uffici. Cosa che lascia ovviamente molto scettici perché la decisione sarà sempre subordinata alle convenienze politiche del momento».
Torniamo all’Italia, dove abbiamo il problema dell’Ilva. Una guerra dell’acciaio rischia di compromettere il suo rilancio?
«Io non vorrei essere così catastrofico. Il tema è più generale, ovvero come l’Europa reagirà a una regionalizzazione progressiva del commercio dell’acciaio. Perché se gli Stati Uniti si chiudono, India e Russia sono chiuse e la Cina a causa della sua sovrapproduzione resta impenetrabile, il trade è regionalizzato».
Rischiamo di farci male da soli?
«Essì. Perché a quel punto l’unica area geografica ed economica importante e completamente aperta dove vendere acciaio sarà l’Europa».