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 2018  marzo 03 Sabato calendario

Cadaveri, bulldozer, vendette. Raqqa e Mosul dopo l’Isis

I cadaveri sono ammonticchiati gli uni sugli altri, strato su strato, nella stanza semidiroccata. Un miscuglio confuso di arti anneriti dalla decomposizione, volti diventati quasi teschi, resti di dita rattrappite. Alcuni ancora riconoscibili, sebbene siano trascorsi circa sette mesi dal massacro. Si vedono un paio di bambini. Forse una donna dai lunghi capelli impolverati. Però in grande maggioranza sono uomini giovani in mimetica. Per lo più calzano sandali. «Vittime di Isis, civili che cercavano di attraversare il Tigri per sfuggire ai bombardamenti», riporta la versione ufficiale fornita dalle autorità irachene. La narrativa dei vincitori. 
Ma la realtà è più complicata. Questi morti di fronte a noi raggiunti camminando tra macerie instabili sono i risultati delle vendette-rappresaglie contro Isis consumate per lo più dalle «Hash al Shaabi», che significa «Forze di Mobilitazione Popolare», come vengono chiamate le milizie sciite inquadrate con le unità militari regolari dell’esercito iracheno. «Abbiamo trovato questi corpi nei quartieri di Shehawan e Meidan, lungo il fiume, evacuati nelle ultime tre settimane proprio dalle milizie sciite», ci raccontano gli abitanti sunniti del posto. Quanti morti? Difficile dire. Solo al piano terra tra i resti pericolanti di una palazzina di due piani se ne vedono decine, l’olezzo è insopportabile: «Tra 72 e 120», ci dicono. 
Tutto attorno, cercando con attenzione, se ne vedono altri. A detta di Daud Salem Mahmoud, volontario delle squadre della municipalità incontrato sul posto, i cadaveri dei militanti di Isis e delle loro famiglie recuperati qui da luglio sono «oltre tremila» e tanti sono ancora da trovare.
È parte del grande problema di Mosul. A sette mesi dalla caduta della roccaforte di Isis in Iraq, la città rimane nettamente divisa in due parti. Nei quartieri a oriente del fiume Tigri le distruzioni sono contenute, la vita sta normalizzandosi. Ma a ovest, dove stanno il cuore della cittadella medioevale e la moschea Al Nouri nella quale Abu Bakr al Baghdadi si auto proclamò Califfo nel 2014, regnano desolazione e morte. Il nucleo urbano è annientato, al suo posto montagne di macerie maleodoranti cosparse di ordigni inesplosi. Ci siamo tornati dopo essere stati pochi giorni fa anche a Raqqa, la capitale siriana dell’Isis sull’Eufrate, catturata dalle milizie curde sostenute dagli americani attorno al 20 ottobre. Due città molto diverse tra loro. Mosul una metropoli con oltre due milioni di abitanti, metà della quale oggi resta morta, foriera di violenze. Raqqa anch’essa pesantemente danneggiata, però molto più piccola (solo 220 mila abitanti prima del 2014), ora cerca di rinascere.
Qui le pattuglie curde siriane controllano gli accessi al perimetro urbano. Le loro forze stanno adesso combattendo lungo l’Eufrate a ridosso del confine iracheno, valutano che circa 5 mila irriducibili dell’Isis, in maggioranza stranieri, siano attestati in due grandi sacche. Ma dentro Raqqa stanno milizie arabe locali loro alleate, almeno per ora. «Circa il 60 per cento delle abitazioni è stato distrutto o danneggiato. Ma non arriva alcun aiuto. È tornata circa metà della popolazione», ci dice Ahmad Ibrahim, il 29enne sindaco nominato dai curdi. L’unico progresso evidente da quando avevamo visto Raqqa nei giorni della sconfitta di Isis sono le strade per lo più sgombre dalle macerie. Alcuni medici locali cercano di rimettere in sesto un paio di cliniche. Chi può si adatta, ripara la casa da solo, bivacca tra le rovine. Ma mancano acqua ed elettricità: di notte trionfano buio e silenzio. Non ci sono le agenzie Onu o le organizzazioni umanitarie e il governo siriano deve ancora negoziare il futuro della città con i curdi.
A Mosul ovest la situazione è però ancora più complessa. «Temiamo violenze con l’approssimarsi delle elezioni nazionali del prossimo 12 maggio. Sono stati gli stessi militari e i capi della polizia inviati da Bagdad a consigliarci la massima prudenza. La tensione politica tra partiti sciiti e sunniti rischia di rallentare qualsiasi ricostruzione», confessa Orfan Nuaemi, direttore della «Rnvdo», una agenzia umanitaria locale che è tra le pochissime a operare nella zona. 
Quando un suo bulldozer ha iniziato farsi strada tra le macerie abbiamo visto due famiglie scavare a mani nude tra i calcinacci per recuperare coperte, vecchie fotografie, sacchi di vestiti. «Non abbiamo alcun genere di aiuto. Manca lavoro e dobbiamo affittare un stanza nelle zone orientali. Questi vestiti bagnati sono gli unici che abbiamo», dice Achmed Baathi, 32 anni mentre mostra una sua vecchia foto appena raccolta in cui sorride vicino alla sua botteguccia di generi alimentari. Dice: «Quattro anni fa ero ricco con il mio negozio ed un automobile. Non ho più nulla». 
L’università di Mosul è devastata, le sue facoltà sono state spostate nei vecchi palazzi di Saddam Hussein. Vi si tiene una conferenza sulla ricostruzione. Ma il 64enne Mowafak al Layla, professore di statistica, è scettico: «In città dominano le milizie sciite. Non mancano cellule dormienti di Isis pronte a colpire. Ci sono caos, sporcizia, il risentimento è forte. Il futuro ci fa paura».