Corriere della Sera, 3 marzo 2018
Sulla crescita globale, la minaccia di 3.439 accordi che limitano gli scambi
Con l’imposizione di tariffe su acciaio e alluminio, Donald Trump danneggia i produttori americani di un gran numero di beni, i loro lavoratori, la sua stessa riforma fiscale, le relazioni con i maggiori partner commerciali. E dal punto di vista politico si indebolisce ulteriormente. Una scelta, se la porterà a termine come annunciata, che farà male agli Stati Uniti. E che ha la potenzialità di fare male a un’economia mondiale che oggi cresce ma è attraversata da spinte protezioniste alle quali la Casa Bianca sta per dare un gran contributo: non è detto che il mondo risponda occhio per occhio, sarebbe saggio non lo facesse; ma è probabile che ciò avvenga.
Sul piano domestico, le tariffe agiranno da tassa per le imprese Usa che producono utilizzando acciaio o alluminio: in un mondo di prezzi dell’acciaio bassi, l’America diventerà un’isola di prezzi alti. Con effetti diretti su settori come l’auto, gli elettrodomestici, l’aerospaziale e a cascata su tutta l’economia. A maggior ragione se europei e asiatici decideranno di rispondere con misure di ritorsione. È un calcolo incomprensibile: l’industria dell’acciaio americana, che nel breve si avvantaggerà della scelta protezionista, dà lavoro a meno di 150 mila persone; quella che utilizza acciaio, e che lo pagherà di più e sarà meno competitiva nel mondo, ne impiega oltre 6,5 milioni. Un’assurdità per un presidente che ha da poco deciso di tagliare le tasse alle imprese per renderle più competitive.
Il problema maggiore della poco sensata decisione è però l’effetto che può avere a livello globale, dove la libertà di commercio – motore essenziale della creazione di ricchezza – è sotto attacco da qualche anno a causa del protezionismo innescato dalla Grande Recessione. Un’analisi appena pubblicata dalla compagnia Euler Hermes (gruppo Allianz) ha calcolato che tra il 2014 e il 2017 nel mondo siano state introdotte 3.439 misure protezioniste di diverso tipo, dall’imposizione di tariffe a controlli sanitari, ambientali e di sicurezza. Di queste, la maggior parte è stata introdotta da Washington, 401: più di 300 delle quali dall’Amministrazione Obama. Trump ne ha decise 90 nel 2017 ma la sua politica commerciale è andata oltre il protezionismo alla frontiera.
La Casa Bianca l’anno scorso ha messo in discussione e in rinegoziazione il Nafta, l’accordo tra Usa, Canada e Messico. È uscita dalla partnership del Pacifico Tpp. Ha lasciato perdere il trattato transatlantico Ttip, in realtà già danneggiato da più di un Paese europeo. Ha messo in discussione la Wto, l’Organizzazione mondiale del Commercio, non solo nel ruolo di stimolo alle liberalizzazioni multilaterali ma anche nel suo pilastro di regolatore delle dispute commerciai.
Gli altri Paesi non sono stati a guardare. Sempre tra 2014 e 2017, l’India ha introdotto 293 misure protezioniste, la Russia 247, la Germania 185. La Cina meno, ma da anni sussidia la sovra-produzione in settori come l’acciaio e i pannelli solari provocando le reazioni commerciali degli altri. Pochi sono del tutto innocenti, in fatto di protezione. Ora, la differenza è che la decisione di Trump è di grande portata e può provocare reazioni a catena, come già fatto intendere dal presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker e dalla commissaria europea al Commercio Cecilia Malmström.
Guerre commerciali – evocate come benefiche nei tweet di Trump – potrebbero rallentare la crescita globale e, se prendessero la logica dell’occhio per occhio, provocherebbero recessione e instabilità politiche.
I produttori italiani di acciaio e alluminio non saranno molto colpiti direttamente: esportano poco negli Stati Uniti. Indirettamente, però, l’export globale che non andrà in America si riverserà sugli altri mercati, in particolare quello europeo dove l’Italia esporta e che è già colpito da anni dall’arrivo di acciaio cinese sottocosto.
A Davos, Trump promise che «America First» non significa America da sola. Non era vero. Oggi l’ha isolata.