La Stampa, 4 marzo 2018
Natalia Ginzburg la corsara degli ultimi
Pur avendo ottenuto abbastanza presto la status di classico contemporaneo, nel centenario della nascita (2016) Natalia Ginzburg non ha ricevuto le attenzioni che meritava. Adesso colmano la lacuna un ricco numero monografico della rivista Autografo a cura di Maria Antonietta Grignani e Domenico Scarpa, con saggi, testimonianze e inediti (Interlinea, pp. 208, €20) e il ritratto biografico, amorevole ma senza sdolcinature sentimentali o agiografiche, che le dedica Sandra Petrignani (La corsara, Neri Pozza, pp. 460, €18). L’autrice è andata in pellegrinaggio nei luoghi topici (Palermo, Torino, Pizzoli, il paese abruzzese del confino, Londra, Roma), ha inseguito amici e testimoni, rievocato figure chiave (Einaudi, Pavese, Felice Balbo, Garboli, Foa, i due mariti molto amati e morti giovani, Leone e Gabriele Baldini) e riletto le opere alla ricerca dei temi portanti, riuscendo a trovare un coinvolgente tono di racconto, in cui mette in scena anche sé stessa senza esibizionismi.
Natalia ha sempre parlato di sé riuscendo a restare misteriosa, maestra di silenzi prudenti. La bambina ombrosa, l’ultimogenita pressoché dimenticata dalla rumorosa famiglia che le dava dell’impiastro e la chiamava Maria Temporala per via dei bronci, si è risarcita scrutando le ipocrisie del mondo degli adulti e restituendole con asciutta, feroce precisione. Si è sempre imposta di inseguire la verità, nella letteratura come nella vita, un’esigenza di rigore etico che condivideva con Leone. Non a caso l’amica Elsa Morante, che peraltro tendeva a tiranneggiarla, le dava della kantiana. Resterà sempre dalla parte dei bambini, degli offesi, degli ultimi, alzando la voce, quando l’indignazione era troppa, come nel caso di Serena Cruz. Ingenua e determinata, modesta e spavalda, timida e proterva, laica ma credente in modo «caotico, tormentato e discontinuo», l’orgoglio di essere speciale e la vergogna di non essere come tutti, l’ex insicura ha saputo elaborare lutti e dolori sino ad acquistare l’autorevolezza totemica di un antico capo tribù.
Nessuno come lei ha saputo raccontare, con la pietà che nasce da una accorata spietatezza, l’essenza profonda delle famiglie e i loro naufragi, l’inconsistenza dei genitori, gli smarrimenti dei figli, d’un’intera epoca. Le basta far parlare un gesto, un dettaglio, il colore di un abito. Con un linguaggio in apparenza normale, ma in realtà aristocratico e perentorio (Garboli) è diventata una opinionista tagliente che ha anticipato persino gli interventi corsari di Pasolini, a cui rimanda il titolo della Petrignani. Già in pieno neorealismo predicava la necessità di «tornare a scegliere le parole, a scrutarle per sentire se erano false o vere, se avevano o no vere radici in noi». Nell’epoca delle parole irresponsabili, le dobbiamo anche scuse postume.