il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2018
Intervista a Enrico Vanzina: La grande commedia ci salva. È la scuola di Steno e Sordi
Cinema, realtà, letteratura e ancora cinema, personaggi, macchina da scrivere prima, computer poi. Recitazione. Ciak, buona la prima. La vita di Enrico Vanzina è tutto un equilibrio dentro a piani spesso paralleli, altri sovrapposti, altri ancora divergenti, strutture pronte a contaminarsi con il rischio di confondersi. Da poco ha pubblicato un bel giallo, La sera a Roma, dove proprio questi piani giocano un ruolo centrale; lui è il protagonista (“Ci ho lavorato in segreto per cinque anni; quando ho capito che ero io il personaggio principale, tutto è cambiato”); lui attraversa la Capitale, racconta segreti e bugie, sesso e nobiltà; sesso e ricatti, il timore di affogare dentro certe logiche, la paura di cadere vittima delle proprie fantasie. È lui. È Roma.
Un traghettatore…
Ho avuto la fortuna e il piacere di vivere molte situazioni. E soprattutto me le ricordo.
Scritto in segreto.
Altrimenti mi avrebbero piazzato dei freni, mia moglie soprattutto; perché sono io il giornalista che cade nell’infedeltà. In parte mi sono rovinato la vita per le donne.
Racconta vicende di molti personaggi reali…
E ne he ho tagliati tanti, erano troppi, secondo Mondadori sembrava il giallo di uno che voleva mostrare quante conoscenze ha.
I protagonisti non riconoscibili rappresentano però un topos del generone romano. Non teme di offendere alcune delle sue conoscenze.
Impossibile.
Prego?
Me lo ha insegnato il più grande genio della comicità: Paolo Villaggio. Secondo lui, Fantozzi erano tutti e nessuno. Tutti ritrovavano il ragioniere nel vicino di casa, il collega in ufficio; nessuno si guardava allo specchio: questo è il potere della commedia.
Un terreno franco.
Nel quale puoi toccare chirurgicamente dei soggetti, senza che i soggetti stessi si possano riconoscere. Quando abbiamo girato Le finte bionde, nessuna ‘rappresentante’ femminile dei Parioli ha protestato.
Fuga dalla realtà.
Oltre a Paolo, questa peculiarità me la spiegavano anche mio padre (Steno) e Mario Monicelli. Poi c’è un dato: la vera commedia si realizza solo osservando, ed è naturale osservare soprattutto le persone che si conoscono, con le quali si entra in contatto.
Con un passo indietro per vedere meglio.
Attenzione: i personaggi non si giudicano, a loro si dà un salvacondotto, altrimenti si cade nella satira o nel dramma.
È necessario schermarsi.
Sì, perché ciò può condurre su un terreno pericoloso, farti credere che la vita è come un film e spesso mi sono infilato dentro a dei guai, ma solo perché non li reputavo tali; senza valutare il giusto peso morale ed etico.
Una buona chiave per giustificarsi.
Esattamente. Solo che nel cinema si possono tagliare le scene, cambiare i finali, correggere delle sfumature.
Esce molto?
Pochissimo. Qualche cena, il cinema, e la partita della Roma. Basta. Non mi va.
Il pubblico vi immagina sempre come in “Vacanze di Natale” o “Sapore di sale”.
In quei film c’è del materiale autobiografico, ma sono passati trenta e passa anni.
Autobiografico, in particolare…
Il personaggio di Jerry Calà in Vacanze di Natale: a 19 anni ho suonato per due mesi il piano a Cortina per mantenermi e seguire un amore.
Lei e suo fratello avete iniziato presto con il cinema.
Carlo anche prima di me: la sua carriera è partita come assistente di Mario Monicelli, poi di Alberto Sordi e di mio padre. E fin da giovanissimo venne chiamato dai grandi produttori come regista. Fu lui a tirarmi dentro.
Lei non voleva?
Pensavo a una carriera da scrittore e basta. Poi il successo è arrivato presto, tra i 27 e i 30 anni abbiamo infilato una serie di colpi micidiali.
Gli altri cosa si aspettano dai Vanzina?
Le persone del cinema di guadagnare molti soldi, mentre il pubblico di divertirsi. E per questo siamo un po’ prigionieri della commedia, quando in realtà abbiamo toccato tutti i generi: dal thriller al melò, mentre il nostro miglior film è un sentimentale come Il cielo in una stanza.
Prigionieri…
Di una commedia che non si è potuta avvalere dei grandi attori del momento, quasi tutti si sono dedicati alla regia.
Tipo Carlo Verdone.
Lui è uno dei miei miti, ma non ci ho mai lavorato. Ed è l’unica persona legata al cinema che realmente frequento, con la quale parlo quasi ogni giorno: siamo entrambi legati a un mondo antico che non abbiamo rinnegato e a uno stile di commedia tradizionale.
Spesso parla di suo fratello.
Perché gli devo moltissimo. Carlo a 13 anni, con il suo primo motorino, andava al cinema anche due volte al giorno, aveva dei libroni nei quali incollava la locandina e poi scriveva i giudizi. Voleva diventare critico cinematografico. Ancora oggi credo sia il più forte esperto di cinema statunitense che abbiamo in Italia
E come regista?
È il più bravo. Risi era pazzo di lui, lo voleva come protagonista ne Il giovane normale
Non se l’è sentita?
È timido.
Vi hanno mai stalkerizzato per ottenere una parte?
Di solito no, giusto qualche attrice.
Qui entriamo nel terreno Weinstein.
Questa storia delle molestie è molto delicata e difficile da districare, ma a fronte di quello che è successo, con le attrici che hanno ragione quando dicono che si sono trovate di fronte a uomini di merda, va detto che avviene anche il contrario, in maniera meno decisiva.
Vuol dire?
Posso raccontare di molte ragazze realmente pronte a tutto, nessuna mi ha stalkerizzato, ma sono entrate in camera, mi hanno aspettato sotto casa… insomma, qualche matta l’ho incontrata.
Complicato resistere.
Ho una fortuna: non mi piacciono le attrici.
Sicuro?
Amo le cassiere, amo la donna popolare.
Sua moglie non è una donna “popolare”.
Vero. Però se devo uscire dai sentimenti, giocare con la fantasia, combattere l’idea della morte, e grazie alle donne è possibile, mi sento attratto dalle persone semplici.
Mentre le attrici…
Mi sembrerebbe di andare a letto con il personaggio di un film, e l’idea non mi intriga.
Lo dice anche nel libro.
Quel passaggio è un outing.
Nonostante l’ambito commedia, il sesso non è molto presente nei vostri film…
È più affrontato in chiave ironica. In Sotto il vestito niente, il produttore (Achille Manzotti), alla fine delle riprese giudicò la pellicola troppo sobria, così senza dirci nulla piazzò una scena nella quale un guardone sbirciava una tipa dalla finestra.
Non vi siete ribellati?
Amen, durava dieci secondi, contento lui. Anche ne I miei primi quarant’anni…
Con Carol Alt celebre per non volersi mai spogliare.
Mai! Si incerottava tutta, neanche la troupe la doveva vedere, così pure Carole Bouquet; ma c’è un dato fondamentale: accade quando le attrici non sono sicure dei propri mezzi artistici.
Direttamente proporzionale.
Sono stato il produttore del primo film con la Bellucci, regista Dino Risi. In una scena lei doveva svegliarsi nel letto accanto a Giancarlo Giannini. Arriva sul set e domanda: ‘Come mi devo mettere, nuda?’. E io: ‘A volte capita quando si dorme con uno che si ama…’. Senza dire nulla si spoglia completamente, davanti a tutti. Incredibile.
E cosa ha capito?
Quella naturalezza è stata spiazzante, una gigante. Solo una predestinata al vero cinema si comporta in tale maniera, con questa forza di convivere, e bene, con se stessa.
Al contrario dei film, nel libro c’è molto sesso.
È una piccola e grande discesa nell’inferno, tutti hanno dei segreti, tutti sono dei mostri, tutti sono dei delatori, si sono venduti l’anima per qualcosa.
Il primo ricordo davanti a una cinepresa…
Non so di preciso, forse sul set di Guardie e ladri, o per Mio figlio Nerone con Carlo che impazzì per Brigitte Bardot (ci riflette). Sì, siamo nati e cresciuti su un set, poi papà ha letteralmente storicizzato la nostra infanzia attraverso una di quelle telecamere in dote all’esercito statunitense; a un certo punto è arrivato a girare dei filmini e noi eravamo i suoi attori.
Suo fratello non è diventato attore per timidezza. Lei?
A me non l’ha mai chiesto nessuno, e non credo sarei stato in grado.
Davvero?
Sì. Però un giorno ho costruito il mio più bel ricordo su un set: eravamo nella Monument Valley per Sognando la California. Era l’alba. Dovevamo girare una scena con attori Navajo insieme ai loro cavalli. Nella mia testa immagino una scena, è un attimo. Mi avvicino a uno di loro: ‘Mi presti il cavallo?’. E lui: ‘Va bene, ma voglio 100 dollari’.
Poco poetico…
Per nulla. Accetto. Salgo in sella, e da solo cavalco verso il sole che sorgeva, come in Ombre rosse: l’emozione di sentirmi dentro al cinema, tra John Wayne e John Ford.
Ecco l’incrocio di piani.
Ricordo ancora quando abbiamo girato con Donald Pleasence, e come due semplici fan gli abbiamo chiesto qualcosa de La Grande Fuga (Pleasence è uno dei protagonisti), e lui ci ha raccontato una vicenda esemplare.
Siamo pronti.
Quando iniziano a girare, a un certo punto bloccano tutto. Mancava qualcosa. I produttori non erano convinti. Così da Hollywood arriva un altro sceneggiatore, il quale si chiude una settimana intera dentro una stanza d’albergo, l’intera troupe incredula e preoccupata: ‘Ora cambierà tutto’.
E invece?
Dopo sette giorni esce dalla stanza e consegna il copione: era uguale a quello precedente. In apparenza. In realtà aveva modificato una sola cosa: aveva dato a Steve McQueen un guantone da baseball con il quale doveva giocare ogni volta che veniva chiuso in cella d’isolamento.
Scena epica.
Da questo capisci cos’è il cinema: un fatto visivo impresso per tutta la vita.
Spesso avete ingaggiato star straniere.
Durante le riprese de La partita, una mattina mi chiama Faye Dunaway: ‘Vieni? Voglio fare una lettura del copione’. Bene. Proviamo. Alla fine le dico: ‘Perfetta la tua parte, va bene così’. E lei: ‘Aspetta, ho studiato altre quattro versioni del mio personaggio’.
Fuori dal comune.
Se parliamo di professionisti fuori dal comune, menzione speciale per Volonté: lui imparava tutto a memoria, non solo la sua parte. E con lui valeva la regola: buona la prima, sempre. Forse è stato il miglior attore con il quale abbiamo mai lavorato.
Eppure ne avete “testati”, come Gigi Proietti.
Conosciuto sul set di Febbre da cavallo (una delle poche locandine appese nel suo ufficio); un fuoriclasse assoluto: ogni attore accanto a lui sparisce. Solo che per me è complicato parlarci: si alza alle due del pomeriggio e va a letto in orari assurdi.
Nel suo studio c’è la foto di Alberto Sordi.
Quell’immagine è una condanna al cinema: quando hai un padre che ha girato Un americano a Roma, e Sordi che resta per sempre come un membro della famiglia, sei quasi obbligato al set.
Casa-Sordi è leggendaria perché inaccessibile. Voi la frequentavate?
Pochissimo. Era molto riservato. Quando è morto sento la notizia alla radio, giro la macchina e mi dirigo verso la sua villa. Arrivo e c’è la folla. Senza speranze citofono. Rispondono, dico chi sono, mi invitano a entrare e dopo il cancello trovo la sorella insieme ad alcune monache: ‘Quanto te voleva bene! Vieni che te faccio un regalo…’. Pensavo a una foto, un ricordo. Invece mi porta in una stanza, mi lascia solo e mi ritrovo con Alberto da morto.
Le è preso un colpo.
Non ho mai visto un morto, neanche mio padre, mi sento male.
E quindi?
Ho abbassato lo sguardo, non ho voluto vedere il volto. L’unica cosa che ho notato è che era diventato piccolo piccolo… ed ero chiuso lì dentro! Un incubo.
Ci ha parlato?
No, mi sono passati davanti una serie infinita di ricordi, di noi insieme: io, Carlo, papà, mamma e Alberto. Una famiglia.
Christian De Sica…
Attore formidabile. Forse si è lasciato imprigionare dai film di Natale e non è riuscito nel definitivo salto.
Vi conoscete da sempre…
Anche da prima di sempre, i nostri genitori si volevano molto bene, c’era affetto e rispetto. Quando papà è morto c’è stato un breve dubbio su dove seppellirlo, se nella tomba di famiglia sul Lago Maggiore, o nella sua città, la stessa che gli ha ispirato Un americano a Roma o Febbre da cavallo. Alla fine abbiamo deciso per Roma, ma non trovavamo una tomba, fino a quando la moglie di De Sica ci ha prestato la loro, e per anni papà è stato sepolto accanto a Vittorio.
Ha pianto il giorno dell’addio di Totti al calcio?
Tantissimo. Ho per lui una debolezza inspiegabile. Nella mia vita ho conosciuto chiunque, ma solo due volte mi sono emozionato: quando negli anni 70 mi sono trovato accanto a Pelé e la prima volta che ho parlato al capitano. Il calcio, forse, ancor più del cinema, tira fuori le origini, l’appartenenza, la fanciullezza. Lì il piano è uno e uno solo.
(Alla fine del libro la moglie urla al protagonista: “Piantala! Io tanti anni fa non mi sono innamorata del personaggio di un film, mi sono innamorata di te. Uno che semplicemente i film li scrive. Storie finte”. Questione di piani…)