il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2018
Tajani, lo sbiadito di B. che faceva dediche SS e tradì pure il Caimano
Antonio lo Sbiadito, dalla biografia senza colori. Un quarto di secolo in politica, perlopiù da parlamentare europeo (1994, 1999, 2004, 2009, 2014), e nulla che faccia ricordare di lui. Forse non è un caso che l’immenso Ego berlusconiano abbia scelto Antonio Tajani come formale successore a Palazzo Chigi, qualora il centrodestra dovesse riuscire nella difficilissima impresa di vincere le elezioni. I capi forti o carismatici sono sempre dorotei: il loro delfino promosso non deve mai oscurare il vero Sole da cui irradia la luce. E non è un caso che Tajani venga definito il gemello berlusconiano di Paolo Gentiloni, al punto da aver condiviso qualche scaramuccia studentesca, su fronti opposti, al liceo Tasso di Roma.
E quando il curriculum è una pagina grigia, sovente c’è la tentazione di riscriverlo da eroe improbabile. Tajani fu cronista del Giornale di Montanelli e ieri il medesimo Giornale, oggi trucemente guidato Alessandro Sallusti, lo ha celebrato con un’apologia vergata da Giancarlo Mazzuca. Morale: il grande maestro di vita che tutto ha insegnato all’allora giovane “Antonio” fu Indro Montanelli, fondatore nel 1974 di quel quotidiano. Bugia, somma bugia. I testimoni della verità sono vari e tra questi spicca Guido Paglia, avanguardista e missino, uomo di accese passioni politiche e che al Giornale fu capo della redazione romana e vicedirettore. L’attendibilità di Paglia ha un fondamento miliare: “La cazzata di assumere Tajani l’ho fatta io, me lo raccomandò Gianfranco Finaldi (giornalista, ndr), mio testimone di nozze, come non potevo fidarmi di lui?”.
Tajani fu attore non protagonista nel brutto film delle dimissioni di Montanelli, suo presunto maestro di vita. Era il gennaio del 1994, l’anno della fatidica discesa in campo del Cavaliere, con Forza Italia. Montanelli era contrario e Berlusconi volle arruffianarsi la redazione. Accadde un paio di settimane prima del 26 gennaio, quando B. discese. Tajani era diventato suo portavoce e telefonò all’ex collega Novarro Montanari, del comitato di redazione del Giornale: “Sono qui con Berlusconi in Cordusio: che ne diresti se il Cavaliere salisse in assemblea?”. Montanari rispose di no, ma B. salì lo stesso. Era lui il Padrone. Il grande “Indro” andò via, fondò La Voce e venne seguito da decine di giornalisti del Giornale. Aggiunge Paglia: “Tajani portò Berlusconi su, ma poi non ebbe il coraggio di farsi vedere dentro, dai suoi ex colleghi. Rimase fuori, ecco il tipo”.
Di tradimenti, Antonio lo Sbiadito ne aveva commesso anche un altro. Stavolta fingendosi montanelliano e antiberlusconiano, verso la fine della Prima Repubblica. A muoverlo le piccole ambizioni tipiche degli opportunisti di redazione. La testimonianza, di tre lustri fa, è di Arturo Diaconale, oggi nel cda della Rai e altro ex del Giornale: “La redazione romana aveva strappato troppo potere a Montanelli. Era riuscita a condizionare la linea politica del Giornale. Noi eravamo vicini a Craxi e contro De Mita. Avevamo un piano: Paglia condirettore, io capo a Roma tenendo Montanelli come simulacro. Ma Montanelli era furbo come una faina. Noi della redazione romana venivamo vissuti come fascio-craxiani, e come berlusconiani. Non poteva sopportarlo. E nominò Federico Orlando condirettore. (…). Paglia se ne andò. E me ne andai anch’io. Tajani rimase. E divenne capo della redazione romana. Non fu un gran bel comportamento. Era berlusconiano. Si allineò e divenne antiberlusconiano. Salvo poi ridiventare berlusconiano. Insomma un voltagabbana. Io capisco le debolezze umane e non gliene facevo una colpa. Paglia invece lo insultò selvaggiamente”.
Del resto, era stato l’ex avanguardista nero ad assumerlo. Di quella stagione Paglia, tra le altre cose ex direttore della relazioni esterne e istituzionali della Rai, ha un perfido ricordo fotografico, decisamente imbarazzante: “Nel 1987 mi regalò una foto in cui noi due eravamo davanti al carcere di Porto Azzurro all’Elba (dove c’era stata una rivolta carceraria ad agosto, ndr). Mi fece una dedica con il motto delle SS naziste: ‘Il nostro onore si chiama fedeltà. A Guido’. Capito che personaggio era?”.
Prima di oscillare tra B. e Montanelli e fare dediche naziste, Tajani era stato monarchico in gioventù (ramo Amedeo d’Aosta, non Vittorio Emanuele). Indi s’innamorò del socialismo tricolore di Lelio Lagorio, già ministro della Difesa, morto l’anno scorso a 91 anni, di cui il giovane Tajani scrisse un’agiografia: “Il Granduca. Lagorio, un socialista Ministro della Difesa”. Forse l’intuizione berlusconiana di Forza Italia si deve proprio a Lagorio, che nel 1982 organizzò un convegno sull’identità italiana e intitolato appunto “Forza Italia”.
Tornando al Giornale. A presentarlo a Silvio Berlusconi fu il fratello Paolo. E fu così che Tajani diventò portavoce del Cavaliere. Per pochissimo. La cosa non funzionò e Berlusconi se ne sbarazzò spingendolo in politica con un seggio. Tentò alle Politiche del 1994, invano. Andò meglio in Europa, sempre nello stesso anno, dove poi è sempre rimasto. Per avere il primo lampo di notorietà ha aspettato ventitré anni: eletto nel gennaio 2017 presidente del Parlamento europeo.
Oggi passa per moderato e popolare, legato alla “Ditta” di Gianni Letta e anche Franco Frattini. Le colombe azzurre, insomma. Con una concezione mutevole e militante dell’etica. Ecco per esempio cosa scriveva Tajani sul Giornale ai tempi della nomina di Antonino Meli a capo dell’Ufficio istruzione di Palermo, al posto di Giovanni Falcone. Era il 1988 e le sedute del Csm furono molto vivaci sulla questione. Scriveva Tajani, prima della nomina di Meli: “Sono mesi, però, che si lavora dietro le quinte per trasformare la nomina in un processo di beatificazione. Il nome sul quale si sono mossi gli accordi sotterranei è quello di Giovanni Falcone (…) a parità di merito, tra Falcone e Meli ci sono ben 18 anni di anzianità. Può ancora sperare (Falcone, ndr) di giocare il ‘jolly delle attitudini’. Si tratta di quelle caratteristiche molto soggettive che Leonardo Sciascia bollò mesi fa, in una sua celebre polemica, come un sicuro mezzo per ‘far carriera all’ombra dell’antimafia’”.
Non male per chi si pregia di essere stato un fondatore di Forza Italia. Ossia il partito di Berlusconi finanziatore di boss e di Marcello Dell’Utri, oggi in carcere per mafia.