il Fatto Quotidiano, 4 marzo 2018
Il Fattore L
Stasera, mentre tutti commenteranno i risultati delle elezioni, sarebbe interessante immaginare il “voto netto” di ciascun partito, detraendo dal lordo la tara del Fattore L (come lingua). Cioè l’effetto dopante delle tv (la Rai di Renzi e la Mediaset di B.) e dei giornaloni renzusconiani. Negli ultimi giorni questo conflitto d’interessi, impensabile pure nello Zimbabwe, è esploso in una doppia apoteosi.
1) Mercoledì B. si faceva intervistare (si fa per dire) da tutti i settimanali della Mondadori (da lui scippata a De Benedetti nel 1991 con la celebre sentenza comprata da Previti), Panorama, Chi e Grazia, che sparavano in copertina tre suoi bucolici manifesti elettorali. Cosa che non potrebbe mai accadere ai suoi alleati Salvini e Meloni né al suo avversario Di Maio, che non posseggono giornali né hanno mai pensato di rubarne qualcuno.
2) Venerdì il Tg1 chiudeva la campagna elettorale dei suoi mandanti Pd con un’intervista (si fa sempre per dire) a Paolo Gentiloni. Col consueto piglio aggressivo del Servizio Pubblico, il feroce Roberto Chinzari aggrediva il premier uscente con una gragnuola di domande scomode. Già la prima era da kappaò: “Presidente, domenica si vota. Qual è la posta in gioco?”. Il povero Paolo, pur barcollando, teneva botta. Ma ecco Chinzari incalzarlo con un altro uppercut da brivido: “I dati economici confermano la ripresa e il calo del debito, ma la percezione dell’opinione pubblica è diversa. Perché?”. Costretto alle corde dal proditorio attacco, Gentiloni cedeva un po’ sulle gambe, ma poi ritrovava miracolosamente l’equilibrio. Implacabile, però, l’intervistatore lo lavorava ai fianchi da par suo: “Il nostro resta un Paese con un solco profondo tra Nord e Sud, è stato fatto abbastanza per colmarlo?”. Lì il premier finiva per la prima volta al tappeto e stava per confessare di non aver fatto per il Sud una beneamata cippa, poi però un agile colpo di reni lo rimetteva in piedi. Ma l’impietoso intervistatore lo finiva con un gancio destro alla Clay: “Lei ha avuto l’endorsement dell’Economist che sottolinea le riforme dei governi a guida Pd. Quali sono le prossime riforme che servono?”. Colpito e affondato dall’inatteso interrogativo, il capo del governo balbettava qualcosa in stato confusionale, poi riprecipitava al tappeto per non alzarsene mai più. E lì, con la coda dell’occhio, notava il suo aggressore intento a massaggiarsi le sbucciature alle ginocchia. Seguivano, sempre sul Pd1, i consueti servizietti sulla Bonino tra folle oceaniche, su Renzi a Firenzi, sulle liste clandestine Insieme e Lorenzin.
Poi sul centrodestra con la “novità Tajani” (che è lì dal ’94). E alla fine, non potendo proprio farne a meno, sui 5Stelle. È la par condicio del Pd1: i primi saranno gli ultimi. Che fa scuola anche nei giornaloni, inclusi quelli che un tempo si sdegnavano per gli scendiletto ai piedi di B. Sentite Repubblica come scortica vivo il povero Franceschini: “Pensa che il Pd sia ancora in gioco, insomma?”, “Crede davvero che si lavori a un accordo tra Salvini, Di Maio e Meloni?”, “Prevede il caos istituzionale dopo il voto? C’è il rischio di uno stallo?”, “Dica”, “Intanto lei chiude la campagna a Pompei”. E ho detto tutto. Stesso trattamento per quel bocciuolo di rosa di Galliani, quello di Calciopoli e dei fondi neri (prescritti) per Lentini, ma è tutto dimenticato. Non su il Giornale, su Repubblica: “Nell’ufficio di Fininvest Adriano Galliani inforca gli occhiali come quando leggeva il bilancio (solitamente falso, ndr) del Milan agli azionisti. Ma ha in mano il programma elettorale e la nostalgia resta nella foto. Lui è il ragazzo con i capelli corti”. Apperò. Poi la tipica raffica da giornalismo anglosassone: “Lei è spesso a San Siro”, “Berlusconi le ha chiesto la pace con Barbara?”, “Più facile il Milan in Champions o il governissimo con Renzi?”, “Ultimo messaggio?”. Si faccia una domanda e si dia una risposta. Con la stessa ruvidezza, Repubblica parla di Tajani: “Una domenica a Fiuggi. Per esprimere un voto. E chissà, per tornare a Roma da premier in pectore
… Ciociaro da capo a piedi, sarà a Fiuggi con la moglie Brunella”. E sono belle cose. “Lo spoglio lo seguirà forse a Roma nella sua casa, ironia della sorte, in via Salvini”. Ah ah, battutona. Indovinate dove tiene i piedi Tajani? “Per terra”. E la testa? “A Bruxelles”. Non sia mai che uno lo cerchi e non lo trovi. “In tanti lo chiamano per sapere che governo immagini, ma Tajani con calma risponde: non me ne sono ancora occupato”. Però “approderebbe col sorriso a Palazzo Chigi” e tutti vivremmo felici e contenti: “Eviterebbe preoccupanti salti nel buio”. Sono soddisfazioni.
La guerra delle lingue la vince ai punti Il Messaggero, che strapazza sia B. sia Tajani in un colpo solo. Corpo a corpo col Caimano: “Si aspettava la rimonta di Parisi nel Lazio?”, “È vero che, se strappate al M5S un piccolo gruzzolo di collegi al Sud, per il centrodestra è vittoria sicura?”, “Non crede che, in nome del bene comune e del realismo patriottico, possiate partecipare a un Governo di unità nazionale?”. Poi la lingua di velluto si posa sul bell’Antonio: “I primi applausi da candidato premier. Da una platea, quella dell’hotel Parco dei Principi, molto tajanea. E lui, Antonio Tajani, per la prima volta, pur parlando sempre di Europa, parla anche di Italia”. Perbacco. “Il format tajaneo da candidato premier si basa su una serie di caratteristiche. Il pragmatismo è una di queste… e l’inclusività è il suo tratto, del resto”. Mecojoni. “Un po’ è un player che si è saputo subito calare nella gara e un po’ Tajani mantiene un profilo da riserva della Repubblica. L’accordo con B. – senza nessuna smania di succedere a B., sennò Tajani non sarebbe Tajani – questo è”. Torna a risplendere il sole sui colli fatali di Roma. Eja eja alalà.