La Stampa, 5 marzo 2018
Ed McBain al servizio dei suoi personaggi
Nessuno scrittore, quando inizia una serie, sa che sta dando inizio a una serie. La maggior parte delle volte crede che quel romanzo sarà letto da pochi intimi, e che le speranze di fama e ricchezza verranno frustrate dall’uniforme disinteresse del pubblico. Poi a pochi, pochissimi fortunati succede qualcosa di inaspettato e incredibile: la gente comincia a chiederti che altro succede a quei personaggi, che c’è scritto nella pagina successiva alla parola Fine, quella famosa pagina che ogni lettore scrive quando, a occhi chiusi, lascia decantare le ultime parole di una storia che ha amato. E l’improvvido autore, assolutamente inconsapevole del labirinto in cui sta andando a cacciarsi, stimolato da un editore che vede più lontano di lui, si decide a scrivere un altro romanzo con gli stessi personaggi.
I quali, già all’ingresso del veicolo che l’autore crede di guidare in totale indipendenza, cominciano a tenere un comportamento e un atteggiamento completamente diverso da quello di prima. Si stravaccano sui sedili, mettono bocca su tutto, direzione da tenere, strade da scegliere, stile di guida. Rivendicano un ruolo creativo, non si adattano più a essere meri esecutori, pretendono di scegliere comportamenti ed espressioni. Credono di essere vivi e reali, e all’interno dell’autobus lo sono eccome.
L’effetto devastante di questa situazione aumenta in maniera esponenziale se l’incauto scrittore decide, per quella serie, di assumere uno pseudonimo. Il McBain dell’87º distretto, per esempio, abbandonato dall’Evan Hunter (che peraltro non era già più Salvatore Albert Lombino, come da anagrafe originaria) autore di celebrati romanzi mainstream e di importanti sceneggiature, non ha forza e personalità adeguate a fronteggiare tutti quei meravigliosi, rotondi, tridimensionali personaggi che popolano il posto di polizia di Isola e che sono adorati dal popolo dei lettori. Nel personale racconto che fa della sua attività creativa, McBain ammette che per costruire un romanzo dell’87º ci mette un mese, a fronte degli otto-nove che impiega il suo alter ego per scrivere un libro: e infatti ne produce almeno un paio all’anno, ma i lettori ne vorrebbero anche di più.
Così l’autore un po’ alla volta, e senza accorgersene, si mette al servizio dei propri personaggi: e da bravo autista va dove le nuove, sempre più autonome star vogliono andare. In un rigurgito di maligna ribellione cerca di ammazzare uno dei protagonisti, e riceve la preoccupata telefonata dell’editore che, alla lettura del manoscritto, gli ingiunge di tornare sui propri passi: è allora che, costretto a cambiare la stesura riportando precipitosamente in vita il morto, McBain comprende di essere diventato lui stesso un personaggio e che è per questo che il suo nome non è quello che c’è sui documenti.
Ed è nello stesso momento che l’autore prende atto di far parte di una famiglia. Per i lettori che sono il suo mondo, l’habitat nel quale e per il quale lavora, l’ambiente in cui trascorre la maggior parte del suo tempo e nel quale volente o nolente ha assunto un demiurgico ruolo che gli viene riconosciuto in modo sorridente e gratificante, egli è una specie di referente, di portavoce di un gruppo di familiari che conducono una vita autonoma, che percorrono la propria strada e che si servono di lui per diventare fisici, per avere una realtà tridimensionale.
A quel punto i personaggi, i passeggeri dell’autobus insomma, producono mostri. Non avendo necessità etiche, non essendo più governabili e non dovendo subire decisioni esterne, essi si completano con figure di ogni tipo secondo le proprie imperscrutabili necessità. Al fianco dei Buoni, degli Eroi che affrontano il male ogni giorno facendo i conti con i problemi quotidiani che tutti abbiamo nelle nostre vite normali, ecco arrivare qualcuno che non avevamo previsto.
Nel caso dell’87º distretto, che è quello che ci è caro, arriva il Sordo.
In effetti il male, il crimine, relegato alla verticalità delle singole storie era troppo perdente. Non era giusto che le forze in campo fossero così impari, da un lato i nostri cari, vecchi amici con famiglie e amori e fobie e imperfezioni, sempre più vicini al nostro cuore di romanzo in romanzo, dall’altro singoli, pazzi e a volte patetici individui figli della follia della Grande Città Violenta, che seguono la deviazione dei sentimenti fino a uccidere. Ci voleva un personaggio più robusto, uno che in qualche strana e poco rassicurante maniera facesse parte della famiglia, che entrasse nella serie a rappresentare quella quota di astuzia malata endemica del contesto sociale. McBain dice, in un’intervista, a proposito: «Il Sordo è il mio Moriarty, ma fa anche parte della famiglia, oserei dire. Senza di lui, i poliziotti del mio distretto non farebbero mai la figura degli stupidi, e tutte le comunità familiari devono ogni tanto sembrare stupide».