La Stampa, 5 marzo 2018
La Cina minaccia Trump. Contro le tariffe sull’acciaio Pechino può anche vendere miliardi di bond americani
«La Cina non vuole una guerra commerciale con gli Stati Uniti, ma assolutamente non resterà ferma a guardare, mentre i suoi interessi vengono danneggiati. Prenderà le misure necessarie». Questo avvertimento lanciato ieri da Zhang Yesui, portavoce del Parlamento della Repubblica popolare, rappresenta la minaccia di un’escalation nella disputa avviata dal presidente Trump, annunciando dazi sulle importazioni di acciaio e alluminio.
Finora Pechino è stata prudente, ma anche ferma. Il più duro era stato Li Xinchuang, vicesegretario dell’Associazione cinese del ferro e l’acciaio: «Che mossa estremamente stupida! Un disperato tentativo di Trump di fare contenti i suoi elettori, che in realtà va contro l’impegno preso con lo slogan “America First”». Il portavoce del ministero degli Esteri, Hua, aveva aggiunto: «La ripresa globale è ancora instabile. Tutti i Paesi dovrebbero sforzarsi per risolvere i problemi, invece di prendere misure unilaterali». Quindi ieri Zhang Yesui ha avvertito: «Se le politiche verranno decise sulla base di giudizi e presupposti sbagliati, danneggeranno le relazioni bilaterali e porteranno a conseguenze che nessun Paese vuole vedere».
La Cina è prudente perché ha un forte surplus commerciale con gli Usa, ma anche perché non rischia grossi danni dai dazi: è solo l’undicesimo esportatore di acciaio in America, con appena il 2% del totale. Invece può fare molto male al presidente, colpendolo proprio in alcuni degli Stati più importanti per la sua elezione. Le rappresaglie potrebbero arrivare nel settore dell’agricoltura e l’allevamento, spingendosi fino all’arma nucleare del debito. Pechino poi potrebbe congelare la collaborazione con Washington per frenare il programma nucleare di Pyongyang, proprio mentre il capo della Casa Bianca dice di aver cominciato i colloqui con la Corea del Nord e apre all’ipotesi di dialogare con Kim. Trump sabato ha notato il passo compiuto da Xi per diventare presidente a vita, dicendo che forse andrebbe provato anche negli Usa. Ma proprio per questo dimentica che il suo collega e rivale è libero di prendere iniziative che invece la democrazia frena in America.
Un settore in cui la Cina potrebbe rispondere è l’agricoltura. L’anno scorso ha importato 4,8 milioni di tonnellate di sorgo dagli Stati Uniti, spendendo un miliardo di dollari, ma ha aperto un’indagine su questo scambio. L’accusa lanciata a Washington è il dumping, ossia la stessa cosa che Washington rimprovera a Pechino sull’acciaio: il governo americano sostiene gli agricoltori con i sussidi, e quindi viola le regole. Discorso simile per la soia, che è un mercato ancora più grande, perché nel 2016 la Cina ne ha importata dagli Usa per 14 miliardi di dollari. Se il dumping fosse confermato, la Repubblica popolare potrebbe rimpiazzare le forniture americane con quelle di Paesi come il Brasile. Così colpirebbe Trump anche sul piano elettorale, perché gli otto Stati più grandi produttori di questi beni avevano votato per lui nel 2016. Il passo successivo potrebbe riguardare la carne, dove la Cina rappresenta un mercato fondamentale per gli esportatori Usa.
La rappresaglia più grave, però, rischia di venire dal debito. Gli investitori stranieri possiedono il 29% dei titoli di Stato americani, ossia 4,04 trilioni di dollari su 14,4, e Pechino ha oltre la metà del totale. Smobilitare non è nel suo interesse, ma se fosse costretta a farlo da una vera guerra commerciale, avrebbe nelle sue mani un’arma devastante che Washington non possiede.