Avvenire, 3 marzo 2018
Perché il calcio negli Usa non è mai decollato (intanto riparte la Major League)
La Major League Soccer, che comincia oggi il suo campionato numero 23, lo fa aspettando Beckham. Sognando Beckham, ancora una volta. Era, una quindicina di anni fa, il titolo di un celebre film del regista Gurinder Chadha, che nella versione originale si chiamava in realtà Bend it like Beckham, ovvero più o meno “piegala” come Beckham e si riferiva al modo in cui il britannico calciava le punizioni.
Nella situazione attuale della Major League del calcio statunitense, entrambi i significati sono corretti: la figura di David Bechkam – che dal 2020, assieme al suo socio Jorge Mas, sarà a capo della nuova franchigia di Miami inserita nella Mls rappresenta sia il sogno di una lega che possa tornare a far parlare di sé, sia la possibilità che un destino segnato, quello della marginalità del soccer a stelle e strisce, possa prendere una piega diversa.
I Mondiali di Usa ’94 lo avevano imposto all’attenzione generale, nei college e nelle università è decisamente praticato (con punte di eccellenza fra le ragazze) e in effetti le presenze sugli spalti degli stadi illustrano numeri più che positivi, se è vero che nell’annata 2017 i biglietti staccati sono stati in media 22.113 a partita: se si considera che la stagione 2016-2017 della nostra Serie A ha visto una media di 22.164 presenze a gara, è intuitivo come le cifre siano simili a quelle del campionato di un paese che di calcio vive, tanto più che la Mls dichiara un aumento del 43% del pubblico negli ultimi dodici anni. Nba e Nhl, basket e hockey insomma, anche per questioni strutturali non hanno superato le 18 mila presenze medie nell’ultima annata di riferimento. Eppure non basta.
Perché, in fondo, la verità è che il calcio negli Stati Uniti non è mai diventato cool. Sebbene la lega continui a crescere (Forbes ha stimato nel 7% l’aumento medio dei ricavi su base annua, destinata ad aumentare anche grazie al nuovo e più remunerativo accordo con lo sponsor tecnico Adidas), i numeri relativi agli spettatori celano infatti un’altra cifra percen- tuale ben più disarmante, sotto l’aspetto commerciale: quasi l’80% circa dei ricavi della Mls arriva proprio dalla vendita dei biglietti. Significa che, nella patria del merchandising, i brand della Major League non funzionano: non c’è gara fra la maglietta dei Lakers e quella dei Galaxy, fra un cappellino dei Chicago Fire e uno dei Cubs, fra una pin dei Giants e una dei New York Red Bull, giusto per restare nei medesimi ambiti cittadini. Basket, baseball e football americano non hanno rivali: identità e storia sono dalla loro parte e la Mls, partita già da uno svantaggio competitivo, non vi si è mai nemmeno avvicinata.
È riuscita in una piccola scalata solamente nel periodo in cui proprio Beckham ne è diventato l’uomo immagine, sbarcando trentaduenne a Los Angeles nel 2007 e rimanendovi per un quinquennio. Bastò la sua fama di celebrità internazionale e cosmopolita – con tanto di moglie straordinariamente inserita e a proprio agio nello star system globale – a far crescere la Mls quel tanto che bastava per dare al calcio il glamourche gli era sempre mancato, e non è un caso se i vari Henry, Nesta, Di Vaio, Robbie Keane, il messicano Blanco, sebbene non certo nel fiore dell’età, finivano da quelle parti quali “designated players”.
Il soccer faceva parlare, lasciava intuire sorti migliori, e l’ottimismo del capo della Mls, Don Garber, era un atteggiamento molto americano e persino un po’ sbruffone: disse, ai tempi dell’addio di Beckham, che di lì a un decennio la lega sarebbe diventata una delle più importanti del mondo.
Una manciata di anni più tardi la situazione è completamente diversa, e a certificare la stagnazione del calcio Usa è stata lo scorso autunno la nazionale, incapace di qualificarsi ai Mondiali dopo sette partecipazioni consecutive. La cultura del calcio non si è granché evoluta, dall’estero sarebbe meglio importare tecnici e allenatori che “designated players” – quelli tipo Giovinco, campione uscente della lega con Toronto, sono assai superiori alla media degli avversari – ma gli Usa vedono le opportunità soprattutto nello show ed è qui che si ritorna a Beckham. La sua figura, unita a quella di una città come Miami (dove sino alla scorsa stagione ha allenato Nesta, ma nel club della Nasl) riproiettata nella Mls potrebbe riaprire strade commerciali che ora appaiono sbarrate. La presenza di un Beckham nella Mls – che, fedele al sistema politico sportivo statunitense delle franchigie, controlla le licenze dei club e i contratti dei giocatori a livello centrale – e proprio nella Gold Coast è chiamata a ridare visibilità all’intero movimento, come accadde undici anni fa, perché «David è un ragazzo speciale», nelle parole di Garber. Per il momento, Beckham e Mas hanno trovato i primi problemi per la costruzione del nuovo stadio, ma nel frattempo l’operazione marketing è iniziata: la franchigia non ha ancora un nome né colori. Li decideranno i tifosi nei prossimi mesi, e anche questa è una strategia: il 2020 non è poi così lontano.