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 2018  marzo 02 Venerdì calendario

Tutte le piroette dell’Elefantino Giuliano Ferrara

Dalla prima lettera di Giuliano l’ Apostata ai suoi ex compagni (12 in tutto, le missive, nel libro Ai comunisti da un traditore, Laterza 1991): «Voi non li amate, quei due segni dell’ alfabeto. Detestate quella proposizione da veterani, da pensionati, da trombati della storia. Sa di rinnegamento, di abiura. Allude a un tradimento, vi parla di una diserzione. Roba da transfughi o da spie o da spretati. Ex. Brutto suono, non è vero?».
È sempre stato un abile magister eloquentiae, Giuliano Ferrara. Ex per antonomasia. Comunista. Socialista craxiano. Berlusconiano non allineato. Papista (tendenza Ratzinger, non certo Bergoglio) ma non credente. «Amerikano» bushiano ma non trumpiano (agosto 2015: «Donald Trump è un noto tamarro, se gli americani dovessero eleggere quel riporto ambulante presidente, o anche solo candidato repubblicano, mi strapperei i capelli»). Renziano entusiasta, ma all’ ultimo stadio: il 4 marzo voterà «Paolo Gentiloni alla Camera, e vabbè, e Emma Bonino al Senato».
La nemesi è completa. La preferenza alla radicale pro aborto a 10 anni di distanza dalle elezioni del 2008 cui Ferrara partecipò con la sua lista pro life «Aborto? No, grazie» (rimediò uno 0,4%: «Più che una sconfitta, una catastrofe: io ho lanciato un grido di dolore per un dramma e gli elettori mi hanno risposto con un pernacchio»). Attenzione comunque ironizzare sulle sue surfistiche metamorfosi. Quando Fabrizio Cicchitto, credendosi spiritoso, lo definì GiulianoFerraraTogliattiCraxiBerlusconi, l’ Elefantino lo addentò con un FabrizioCicchittoSignorileOrtolaniGelli, membro di una consorteria massonicoaffaristicospionisticoricattatoria, obliqua affettuosità per ricordare all’ incauto quella sciocchezzuola della P2.

Riassunto random delle puntate precedenti.
1 Innamorato di Matteo Renzi, cui ha dedicato il volumetto Il Royal Baby, è ricambiato con sobrietà dal segretario Pd: «Come al solito quando leggo le parole definitive, da scolpire, di Ferrara, partono 92 minuti di applausi». Anche Enrico Letta fu all’ inizio ricoperto di miele: «Se vi fosse capitato di vedere con che dolcezza accompagna le sue creature all’ asilo, votereste la fiducia». Per poi venire asfaltato: «Pavido, trascinato e non trascinatore, sgomitatore senz’ anima, non sa cosa sia la scommessa, il rischio, senza i quali la politica è saporita come un brodino vegetale. Letta avrebbe il dovere di dimettersi» da premier.
 
2 In tv ricompare nel 2011, lasciato Ottoemezzo su La7 per la citata campagna elettorale del 2008, con il remake di Radio Londra, questa volta non su Canale 5 ma dopo il Tg1. Esperienza breve. A settembre 2012 il programma chiude, dopo la mancata messa in onda di una puntata su Renata Polverini. Ferrara denuncia di essere stato oggetto di «un grottesco e prolungato mobbing da parte di un funzionario Rai. Tutti lo sanno». Mauro Mazza, direttore (di centrodestra) del Tg1: «Di fronte a una registrazione superata dagli eventi (Ferrara chiedeva le dimissioni di Polverini, che nel frattempo le aveva date, nda) ho preso, nella irreperibilità dello stesso Ferrara, l’ unica decisione possibile. Che avrebbe preso anche il direttore del Foglio». Il programma, comunque, aveva incontrato «problemi di audience» (Laura Rio, Il Giornale). E vabbè.
 
3 A Otto e mezzo lui era l’«otto», il «mezzo» gli occasionali colleghi che lo affiancavano. E che dopo un po’, eccezion fatta per Ritanna Armeni, non sopportava più (un esasperato Gad Lerner gli chiese in modo galante, lui che in seguito si sarebbe fatto paladino del corpo delle donne contro quel maniaco del Cavaliere: «Giuliano, hai le mestruazioni?»; Luca Sofri fu rampognato in diretta come uno scolaretto: «Ma leggi, studia!», Barbara Palombelli si sentì ricordare di essere la moglie di Francesco Rutelli, quindi di avere punti di vista interessati). Molteplici i momenti topici.
Quando Giulio Tremonti in collegamento, non sopportando di essere definito «uomo del Nord», sbottò: «Ferrara, la smetta con ’sta menata, si sforzi di essere cortese», Ferrara lo incenerì gelidamente: «È lei che deve sforzarsi di essere cortese, menata lo dice a sua sorella, chiaro?». Poco british? So what? Ferrara si è sempre dichiarato allergico al giornalismo «inteso come professione: si sente casta ed è combriccola si pretende indipendente ed è servile, si professa imparziale quando è più surrettiziamente partigiano» (da Radio Londra, Leonardo Editore 1989). 
L’ informazione, per lui, non è che la prosecuzione della politica con altri mezzi, il diritto-dovere di prendere faziosamente posizione, con un approccio «selvaggio», senza ipocrisie né formalismi, ché «il codice deontologico è l’ ultimo rifugio delle canaglie». E vabbè.
 
4 Nel 1996 ha fondato Il Foglio (ha lasciato la direzione nel 2015) imponendosi come influencer pur alla guida di un giornale senza lettori fuori da quel grande raccordo autoreferenziale tra establishment, Palazzo della politica e giornalisti che vi gravitano intorno. Quotidiano comunque molto citato, tra gli azionisti nel tempo Denis Verdini e l’ ancora moglie di Silvio, Veronica Lario, che cederà le quote al di lui fratello Paolo, dal 1997 al 2013 ha ricevuto circa 51 milioni di fondi pubblici, perché la stampella statalista è pur sempre meglio della mano morta, più che invisibile, del mercato («Certo qualcosa al bilancio dello Stato Il Foglio è costato» ha ammesso soavemente davanti alla commissione Cultura della Camera dei deputati). 
Sempre a proposito di svanziche per le casse del quotidiano: nel 2004 Vittorio Feltri e Alessandro Sallusti, di certo non antipatizzanti di Ferrara, pubblicarono su Libero i verbali degli interrogatori di Calisto Tanzi. Il banchiere romano Cesare Geronzi gli aveva chiesto di entrare nel capitale sociale del Manifesto, e poi del Foglio. Il quotidiano della sinistra fu finanziato da Parmalat, il Foglio no: «Non avevo soldi per l’ operazione ma feci sapere che sarei stato disponibile ad aiutare in qualche modo».
Cosa che avvenne: Tanzi disse ai magistrati di aver portato di persona a Ferrara una borsa contenente «non ricordo se 500 milioni di lire o un miliardo, presi non so da quale voce di bilancio». E Ferrara cosa le disse? domandano i pm. «Mi disse solo: grazie». (Allo scoop di Libero, secondo quanto scrive nel Catalogo dei viventi Giorgio Dell’ Arti, collaboratore per anni del Foglio, l’ Elefantino «ha fatto spallucce, la notizia era vera»). Sostiene del resto Ferrara: «Devi essere ricattabile, per fare politica, devi stare dentro un sistema che ti accetta perché sei disponibile a fare fronte, compartecipe di un meccanismo comunitario e associativo attraverso cui si selezionano le classi dirigenti» (da un dibattito nel 2012 con Piercamillo Davigo, citato in un articolo di Gian Antonio Stella, L’ ingordigia dei mediocri). E vabbè.
 
5 In tv arriva con il Tg2 al profumo di garofano, ma la consacrazione l’ ottiene su Rai3 con Linea rovente nell’ 87. Duplice ironia della sorte: rete lottizzata dal Pci, costume di scena una toga da magistrato. Non male per un ex comunista fustigatore del giustizialismo.
 
6 Nell’ autobiografia del 2003 sul Foglio il coming out: «Tra i tanti lavoretti c’ è stato anche quello di informatore prezzolato della Cia». Svelava a un giovane agente, così spiegò, arcani e arabeschi della politica italiana. Ma «e se invece fosse stato ingaggiato per la sua vicinanza a Craxi in quella fase segnata dalla crisi di Sigonella (la base militare dove, ottobre 1985, militari americani cercarono di prelevare i terroristi palestinesi autori del dirottamente dell’ Achille Lauro, ma furono respinti da carabinieri e avieri italiani, dopo che Craxi aveva rifiutato di consegnarli nonostante la telefonata del presidente americano, un infuriato Ronald Reagan, ndr»)», dubbio che Claudio Martelli espresse, opportunamente sfruculiato dal sottoscritto dopo una puntata di Omnibus su La7. Va detto che Martelli aveva il dente avvelenato: in quell’ autobiografia era dipinto come un «serpente senza sonagli, un bestiale bugiardo dalla lingua biforcuta».
 
7 Ferrara abbandona il Pci «ma non è vero che Giuliano sia uscito dal partito nell’ 82 e neanche all’ inizio dell’ 83: ottenne di fare il funzionario di partito a metà tempo, e quindi a metà stipendio, privilegio all’ epoca impensabile, perché, disse, voleva rimettersi a studiare filosofia» puntualizzò il già sindaco di Torino Diego Novelli. A sancire il distacco arrivò una sua, in senso letterale, intervista al settimanale L’ Europeo. Ha ricordato Barbara Palombelli in Diario di una mamma giornalista «(Rizzoli, 2001): «Ferrara stava per lasciare la politica, lui accetta di fare un’ intervista. Arriva con un fogliettino piegato in quattro: ti spiace se ho già scritto tutto da me, domande e risposte? Restai di ghiaccio. Non avevo mai, e davvero mai neanche dopo, firmato articoli scritti da altri, in questo caso giocavano l’ amicizia, la necessità di afferrare al volo il piccolo scoop che non sarebbe passato inosservato tra gli addetti ai lavori, e dissi: va bene». E vabbè.
L’ Elefantino ha raccontato che una sera sul Lungotevere una coppia si è avvicinata, e il lui: «Scusi, ma lei è Giuliano Ferrara?». Al suo negare l’ evidenza, i due si sono allontanati, con lei gongolante: «Che ti avevo detto? Giuliano Ferrara è morto». Macché. Ferrara è vivo e lotta insieme a loro, quelli del Pd.