La Stampa, 2 marzo 2018
Amnistia per chi restituisce pistole e fucili. Così l’Australia ha fermato le stragi
Sono entrambe sterminate nazioni di lingua inglese, a maggioranza bianca ma ormai multietniche, con un passato che esalta un vigoroso individualismo di uomini dalla scorza dura. Ma sulla questione delle armi, Stati Uniti e Australia appartengono a due universi diversi. E dopo il massacro di studenti in Florida, sui social media è diventato virale un impietoso confronto che parte da un semplice fatto: nel 1996 l’Australia ha messo fuori legge le armi automatiche e semi-automatiche dopo la sua peggiore sparatoria di massa di sempre. Da allora, non ce n’è più stata una.
Se in America la questione è tra le più infuocate politicamente, in Australia quasi nessuno ormai critica il National Firearms Act, considerato tra i provvedimenti più severi in materia al mondo. Ripetuti sondaggi hanno mostrato come per quasi metà della popolazione la legge vada bene così, mentre l’altra metà vorrebbe norme ancora più rigide. Per il governo, ridurre il numero di armi da fuoco in circolazione rimane una priorità: e l’anno scorso, come è stato annunciato ieri, oltre 57mila armi sono state consegnate dai possessori tra luglio e settembre, nell’ambito di un’amnistia che invitava a disfarsene senza conseguenze penali. «Togliere dalle strade queste armi non registrate significa che non finiranno nelle mani di criminali che potrebbero usarle per mettere in pericolo le vite di australiani innocenti», ha detto il ministro Angus Taylor.
Parole che negli Usa scatenerebbero polemiche. Ma in Australia il ricordo del massacro di Port Arthur del 28 aprile 1996 è ancora nitido. Un ragazzone biondo di 28 anni uccise 35 persone presso un’attrazione turistica. Il governo rispose confiscando 650mila armi da fuoco, risarcendo parzialmente i possessori. Fu creato un registro nazionale: chi possiede un’arma non dichiarata rischia fino a 14 anni di carcere e 185mila euro di multa. Per l’acquisto serve un «motivo giustificato», e l’autodifesa non lo è. Bisogna anche attendere 28 giorni, durante i quali vengono effettuati diversi controlli sul background dell’acquirente. I possessori devono inoltre tenere arma e proiettili in casseforti separate. Nei quindici anni prima di Port Arthur, 13 sparatorie di massa avevano causato quasi 150 morti: da allora, come ormai sanno anche molti americani, zero. Il numero di omicidi con armi da fuoco è sceso del 60 per cento. E il tutto con una legge approvata in soli dodici giorni con un consenso bipartisan. Ci fu una certa resistenza in particolare nell’entroterra rurale; ma l’allora premier conservatore John Howard, pur rischiando di perdere voti tra un elettorato a lui favorevole, capì che l’opinione pubblica esigeva una svolta.
È stato fatto notare che l’esempio australiano è difficilmente replicabile negli Usa. Intanto, in Australia non c’è un diritto di possedere armi sancito dalla Costituzione, né una potente lobby delle armi. Poi, mettere d’accordo sei stati in un Paese di 24 milioni di abitanti è più facile che fare lo stesso con 50 stati e una popolazione di 326 milioni. Ma ci sono anche radicate differenze storiche. «Non abbiamo mai avuto una rivoluzione né una guerra civile, né abbiamo combattuto truppe straniere sul nostro territorio. E la sicurezza era sempre garantita dall’esercito britannico», ha scritto il giornalista australiano A. Odysseus Patrick sul «New York Times».
C’è però il rischio di idealizzare una situazione che non esiste. Negli ultimi anni, quattro stati australiani hanno allentato le restrizioni introdotte due decenni fa. Si calcola che il totale di armi in circolazione – quasi 3 milioni – sia tornato a essere quello all’epoca di Port Arthur, e che 260mila non siano registrate. La stessa recente amnistia è stata introdotta per i timori di un nuovo afflusso d’armi, assieme a quelli per atti terroristici di immigrati radicalizzati. Ma il solco tracciato nel 1996 c’è ancora. E per gli australiani è un motivo di vanto.