La Stampa, 2 marzo 2018
La campagna delle grandi delusioni
Non respiriamo certo entusiasmo, a due giorni dal voto. Gli osservatori sono concordi nel ritenere che sia stata una pessima campagna elettorale. C’è chi dice la peggiore della storia. Si teme un’astensione elevata. E gli ultimi sondaggi pubblicati mostravano come in quel momento, a due settimane dalle urne, moltissimi non avessero ancora deciso per chi votare. Eppure la proporzionale dovrebbe almeno far sì che le preferenze dell’elettorato siano rappresentate da vicino. Perché allora siamo così scontenti? Avanzo un’ipotesi: perché tanti elettori ritengono che la scelta sia in verità fra due soli grandi blocchi, entrambi insoddisfacenti. Uno realista ma conservatore; l’altro radicalmente innovatore, ma fuori dalla realtà.
Al primo blocco possiamo ascrivere il Partito democratico e, per l’atteggiamento che ha avuto in campagna elettorale, Forza Italia. Quasi un quarto di secolo fa, quando scese in campo, Berlusconi ci propose un’immagine coerente del Paese: meno Stato, più società civile. Già sette anni dopo, nel 2001, il clima non era più lo stesso. E pur rimanendo fedele all’ispirazione originaria, Berlusconi cambiò allora strategia: non una singola, grandiosa idea del futuro; ma tante idee più modeste, una per ciascuna categoria di elettori.
Meno tasse e disoccupazione, più sicurezza, pensioni e lavori pubblici – prometteva il Contratto con gli italiani. Dal 2001 il clima è cambiato ancora, profondamente, e l’incapacità dei partiti «responsabili» di mostrare con chiarezza in che direzione intendano procedere s’è aggravata. Non è un caso, allora, se a due giorni dal voto Berlusconi non ha estratto la consueta trovata dal cilindro. Perché di trovate che possano avere un vero impatto non ce ne sono più. Mentre – siccome Berlusconi ha fatto scuola – di trovate minori se ne consumano dieci al giorno.
Per il Pd potremmo fare un discorso analogo. Ricordate quando Enrico Letta, da presidente del Consiglio, disse che per sistemare l’Italia occorreva il cacciavite – intendendo tante piccole riforme? Renzi replicò che ci voleva invece il caterpillar. Bene: dov’è oggi il caterpillar democratico? Il programma del Pd è fatto d’una miriade di interventi da cacciavite: utilissimi magari, ma non tali da restituire l’idea d’un progetto politico ambizioso. Qual è il messaggio dei partiti più vicini al centro, in conclusione? Che questo mondo va bene così com’è, e dev’essere soltanto sistemato qua e là. Ma questo è un messaggio che tantissimi elettori non vogliono proprio più sentire – abbiano o non abbiano ragione, e quali che siano i loro motivi (a proposito dei quali mi limito soltanto a suggerire un indizio: chi guarda soltanto all’economia non capirà mai).
E l’altro blocco, quello radicale? La Lega ha presentato un programma schiettamente sovranista: lo Stato nazionale deve riprendere il controllo, ha detto – sulla sicurezza, le migrazioni, la moneta, il debito. Nel Movimento 5 Stelle, Luigi Di Maio sta cercando di giocare la stessa partita delle forze di establishment: la squadra di governo; le tante proposte diverse che puntano ad accontentare ciascuna una fetta d’elettorato. Allo stesso tempo però i militanti, usando la piattaforma Rousseau, hanno prodotto un programma ideologicamente ben più coerente. Un programma – per l’appunto – rousseauiano: l’Italia come una comunità chiusa, a economia circolare, nella quale tutti partecipano, e tutti controllano tutti.
Ora, sovranismo e comunitarismo sono senz’altro due idee chiare e coerenti del futuro. Anche a prescindere da quanto siano desiderabili, però, quanto sono realistiche? E se anche potessimo realizzarle, quale prezzo dovremmo pagare? Talmente alto che le stesse forze politiche che le sostengono cercano in ogni modo di occultarlo. Moltissimi elettori però se ne rendono conto. E non di rado sono proprio quegli stessi che non vogliono più sentirsi dire che le cose vanno bene come sono. Costoro si asterranno. O se andranno a votare, lo faranno senza alcun entusiasmo. In tutti i casi, ne usciranno infelici e frustrati.
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