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 2018  marzo 01 Giovedì calendario

Bianciardi, l’uomo che «inventò» il Sessantotto

Alziamo i calici sessantottini per Luciano Bianciardi. 
Perché ad inventare il ’68, -a sua insaputa fu il «precario esistenziale» di Grosseto (definizione di Gian Paolo Serino); uno che odiava il brulicare del conformismo lombardo al punto da immaginare Milano sdraiata su un groviglio di tritolo. E sulle sue disillusioni a orologeria, Bianciardi ci scrisse sopra un romanzo La vita agra, in cui il protagonista immagina di far esplodere la sede di una compagnia nella Torre Galfa per vendicare dei disgraziati soffocati in miniera. La vita agra è del ’62 ma, per capirci, avrebbe potuto essere il manifesto dei movimenti di protesta delle università americane; o dei nostri confusi cortei antiborghesi; o di un editore come Giangiacomo Feltrinelli che saltò in aria assieme al traliccio sul quale -a suo parere l’anarchia di popolo doveva arrampicarsi, fino a raggiungere la lotta armata. Bianciardi odiava tutti. E, almeno all’inizio, era cordialmente ricambiato. Lasciata la famiglia borghese nel ’54 per raggiungere Milano («Bastano pochi mesi perché chiunque si trasferisca qui si svuoti dentro...»), entrò nell’editoria dalla porta principale: traduttore dall’inglese proprio alla Feltrinelli. Nel giro di poco ritenne quel mestiere un gorgo burocratico e si licenziò. Indro Montanelli, primo prefatore della Vita agra, gli offrì un contratto di collaborazione a 300mila lire al mese (oggi, 5mila euro); ma Bianciardi, non sentendosi «libero», rifiutò, preferendo vergare pezzi maestosi per Le Ore, Playmen, ABC e soprattutto il Guerin Sportivo diretto da Gianni Brera. Sul Guerino, specialmente, teneva una rubrica della posta abrasiva, attraverso la quale spesso toglieva la pelle ai personaggi famosi dell’epoca, da Vittorio Adorni a Gino PAoli, da Giuseppe Berto a Lando Buzzanca. Era capace di frasi che spazzavano le regole stesse della pelota, del calcio inteso come liturgia popolare: «Il fuorigioco mi sta antipatico, come tutte le regole che limitano la libertà di movimento e di parcheggio». Le regole, per lui, erano il pleonasmo d’una vita già disarticolata di suo. 
TRA BELLOW E MILLER 
Intanto, guarda caso, Luciano continuava a tradurre l’epopea dei grandi ribelli: Saul Bellow, Aldous Huxley, Henry Miller, John Steinbeck. Ovvio che qualcosa di quelle fiammate letterarie gli rimanesse attaccata. Sicchè oggi, mentre impazzano i festeggiamenti nostalgici per i 50 anni della grande contestazione; e mentre si festeggiano i dieci anni dell’unico film-documentario su questo matto meraviglioso (Bianciardi! di Massimo Coppola), be’, un’università organizza un corso sul grande irregolare. C’è il piccolo particolare che si tratta dell’’«Università delle tre età» di Grosseto; la quale, certamente, vale da sola un pezzo “alla Bianciardi” ma è troppo poco per parlare di “riscoperta” di un padre inconsapevole del ’68. Eppure Bianciardi quello era: un anticipatore. 
Nella sua biografia più completa firmate per Edizioni Clichy da Serino, Bianciardi intuisce che la politica intesa come servizio alla comunità era finita da un pezzo; che non ci fosse «più nulla da salvare»; che fosse necessario uno choc sociale. Aveva anticipato, in questo, con la sua “trilogia delle rabbia”, il Pier Paolo Pasolini corsaro degli articoli pubblicati sul Corriere agli inizi degli anni 70 (leggendaria la sua foto con la benda sull’occhio destro). Scrive, per esempio, ne L’integrazione: «Questi sono i ceti medi italiani... Neanche i loro bisogni sono genuini: pensa la pubblicità a fabbricarglieli, giorno per giorno. Tu vorrai il frigorifero, tu la macchina, tu addirittura una faccia nuova. E loro vogliono quel che il padrone impone. E credono che sia questa la vita moderna, la felicità». Un attacco feroce al boom economico. 
Bianciardi pubblicò anche sull’Avanti e il pezzo verrà poi riproposto nella sua raccolta Il convitato di vetro. Scritti di critica televisiva un’invettiva contro il modello dell’omologazione offerto dalla tv, rappresentato da Mike Bongiono: «Sarebbe ingiusto farsi beffe di un uomo così onestamente mediocre. Bisogna dire che Mike Bongiorno meritava il successo che ha avuto proprio in virtù del suo schietto, lampante grigiore». Era il 1959. Il collega e sua volta critico tv del Fatto Quotidiano Nanni Delbecchi nel saggio La coscienza di Mike (Mursia) fu il primo a notare come, appena due anni dopo, la Fenomenologia di Mike Bongiorno di Umberto Eco, fosse così evocativa delle teorie sociologiche bianciardiane. Dicevo dell’odio di Bianciardi per il mondo. Quell’odio si attenuò, per trasformarsi in ammirazione e quasi in idolatria, nel momento del successo delle Vita agra. Lo chiamavano dappertutto, nelle manfestazioni, sui giornali, nei salotti buoni cosìsimili a quelli newyorkesi alla Leo Bernstein. Lo richiedevano per presentarlo come scrittore «incazzato di professione»; e Luciano avrebbe potuto scrivere un titolo rabbioso all’anno, magari pubblicato da Feltrinelli per potere ridare ossigeno al suo asfittico conto in banca. Ma l’uomo era tutto, tranne che il ventriloquo dell’antisistema. Si riteneva un «anarchico individualista per disposizione d’animo, non per ideologia», uno della schiatta dei Gian Carlo Fusco, dei Sergio Saviane, dei Pietro Germi. 
FUORI DAI SALOTTI 
E decise di rimanere sull’uscio dei salotti buoni, vergando titoli indisponenti tipo: Come si diventa un intellettuale Manuale ad uso dei giovani d’oggi, in particolare di quello che madre natura non ha dotato di talento. La pagò. Scivolò nell’alcol. Venne trattato sempre più come un paria, come un «alcolista con problemi di scrittura» alla stregua di uno dei suoi misconosciuti autori di riferimento, Brendan Behan. 
Infine, Bianciardi morì il 14 novembre ’71, a 49 anni. lo avevano raccolto per strada «in avanzato stato di coma etilico» come recitava la sua cartella clinica. Al funerale si presentarono in quattro. l’unico ribelle che non ha fatto carriera. Alziamo i calici...