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 2018  marzo 02 Venerdì calendario

Cesare Cavalleri e la fede nella critica

Aneddoto sublime, al vetriolo. Premio Strega, 1969, «c’erano tutti, c’erano i soliti... ci sono i grandi vecchi, Ungaretti e Palazzeschi, molte anziane signore luccicanti e fruscianti, in anticipo sul 6 gennaio; ecco Carlo Levi, vestito di bianco e coi capelli al vento, come un santone indiano; il poeta Giorgio Caproni, che pare intagliato nel legno come le statuette della Val Gardena... ci sono anche figli, figlie, suocere e cognate di scrittori, e parecchie persone con arti ingessati». A essere ingessata, già all’epoca, è la cultura italiota riassunta dal premio più noto del Paese, ghigliottinato nella sgomitata di un incipit intriso di radioso cinismo: «Ormai si fanno scommesse su chi arriverà secondo: il vincitore assoluto dei premi letterari, infatti, è già noto in precedenza» (per la cronaca, Lalla Romano). L’inviato di Avvenire – l’articolessa, tagliente, esce il 6 luglio 1969 – ha 33 anni e accompagna in Villa Giulia, «la residenza che fu di Papa Giulio», Ennio Flaiano.
L’inviato si chiama Cesare Cavalleri, ha il cervello fino, ha già fondato Fogli ed è il direttore di Studi Cattolici. Numerario dell’Opus Dei – nel 1960 condivide la residenza universitaria romana con Raimon Pannikar, «persona assolutamente fuori scala, d’intelligenza bruciante» – Cavalleri è tra i grandi intellettuali cattolici del tempo presente, ma più che un bilioso Torquemada è un bimbo con la cerbottana, che ancora intende la neve come un miracolo. Così, è un fan dello scettico Flaiano («ho amore per le persone intelligenti. Di chiunque si tratti e qualunque cosa faccia»), intrattiene un rapporto epistolare con Giorgio Caproni («ho seguito la sua ricerca a-teologica di Dio, anche se negli ultimi tempi rischiava di diventare una maniera»), commissiona poesie sul Natale a Giovanni Raboni («lo considero il poeta migliore della sua generazione e non gli ho mai nascosto le mie profonde riserve per la sua situazione famigliare e ideologica»).
Poco più di ottant’anni, una coerenza madornale («sono lo stesso di quando ne avevo 17»), Cavalleri pratica la critica letteraria da un cinquantennio senza i vezzi dell’accademico, con l’arguzia del lettore vagabondo, servo alla meraviglia. I suoi giudizi, intagliati nel cristallo, spaurano i più. Senza timore di sbriciolare i totem (Pasolini? «Salvo poco o nulla... Le ceneri di Gramsci, bellissimo. Il resto è di pochissimo spessore. La pubblicazione di Petrolio per me resta un oltraggio alla sua memoria», d’altronde, «nessuno legge più Pasolini»), Cavalleri ha affilato la coltelleria retorica contro i tre cavalieri del nulla, la trimurti della sapienza italica. Se con Roberto Calasso, l’aleph di Adelphi, Cavalleri ha usato un pugnale raffinato nell’oro (la «sua scrittura lievitata da fioca febbre – due o tre lineette di aristocratica febbricola» edifica romanzi che sono «una raccolta di simulacri di simulacri»), di Eugenio Scalfari ha fatto un punching-ball («vuol far credere di pavoneggiarsi fra gli eletti», ma il suo «è uno gnosticismo da grande magazzino, da hard discount» pregno di un «simbolismo di seconda mano, per sentito dire»), mentre a Umberto Eco ha riservato una sonora pernacchia. La stroncatura a L’isola del giorno prima (era il 1995), è un classico del genere, con bordate epiche: «Umberto Eco è in costante commozione/ammirazione verso sé stesso che sa così ben raccontare, come quei rompiscatole che in treno incominciano a raccontare per filo e per segno quello che gli è capitato da quando hanno (o credono di avere) l’uso della ragione (e anche prima)... senza dar peso agli sbadigli e scatarramenti dei malcapitati interlocutori che volentieri cambierebbero scompartimento».
Di Cesare Cavalleri mi parlò il poeta Alessandro Rivali. Lo chiamava «il capo». A volte optava per «grande Cesare». Creatura, comunque, trincerata nel suo studio, di austera invincibilità, santificata da aneddoti assoluti. Era amico di Dino Buzzati, aveva ingaggiato una polemica con Eugenio Montale (adorandolo), era stato dirimpettaio di Ungaretti («facevamo lunghe passeggiate insieme e più che della poesia parlavamo della vita»). Quando lo conobbi – tremando dalla punta della lingua alle caviglie – mi disse di Saint-John Perse («il più grande poeta del nostro secolo»), e mi stupii che quel viso marmoreo potesse spalancarsi in sorrisi così totali. Ora, nella «conversazione con Jacopo Guerriero», sotto il titolo «Per vivere meglio». Cattolicesimo, cultura, editoria (Els La Scuola, pagg. 190, euro 16), la leggenda di Cesare Cavalleri, con messe aneddotica, trova una sintesi. A stordire è l’attività formidabile da direttore della Ares (ha scommesso su Il cavallo rosso di Eugenio Corti, ha pubblicato Alessandro Spina e il poeta Elio Fiore) ed è incanto il fuggevole incontro veneziano con Ezra Pound («bianchissimo – bianchissime le mani... i suoi occhi, improvvisi, due laghi d’azzurro»), a cui ha dedicato la collana «Poundiana». Più che altro, lasciando le memorie al tritatutto del tempo, resta l’epigrafe: «Il bello è lo splendore del vero. Se c’è verità c’è anche bellezza. Non mi muoverei da qui». Da lì non mi muovo nemmeno io.