la Repubblica, 2 marzo 2018
L’ultimo muro d’Europa
BELFAST «L’Irlanda si riunificherà grazie alla Brexit». La voce è profonda, baritonale, resa cantilenante dall’inconfondibile cadenza locale: l’inglese parlato come se uno avesse un sassolino in bocca. Un modo, anche questo, di sottolineare la differenza: seppure separate da appena 21 chilometri nel punto più stretto del Canale del Nord, le due isole sono profondamente diverse. Lo sguardo, dietro gli occhiali che gli danno una severa aria intellettuale, è fiammeggiante. In un tempo non lontano, Gerry Adams figurava accanto ad Arafat, Castro, Mandela, nell’olimpo dei capi rivoluzionari, quella specie eletta ma controversa che alcuni considerano eroi e altri terroristi. Di cappelli, sulla sua testa adornata da una folta barba grigia, ne ha indossati tanti: leader dello Sinn Fein a Belfast e a Dublino; presunto comandante dell’Ira, acronimo di Irish Republican Army, per tre decenni l’esercito clandestino più grande e meglio armato d’Europa; deputato al Parlamento di Westminster, anche se non ha mai occupato il seggio; deputato al Parlamento irlandese. Ora, almeno ufficialmente, non ne porterà più nemmeno uno: in vista dei 70 anni si è dimesso dalla carica di presidente del partito, l’ultima che conservava, e non si ricandiderà più alle elezioni da nessuna parte, smentendo le voci su future ambizioni alla presidenza della repubblica irlandese. Lo Sinn Fein (in gaelico significa “Solo noi”) sarà guidato da due donne di una generazione più giovane, le quarantenni Mary Lou Mc-Donald e Michelle O’Neill, in questo momento sedute al suo fianco nella folta platea di colleghi, militanti, giornalisti, nel centro congressi della città immortalata da James Joyce.
In un certo senso anche lui è un Ulisse, ma la sua odissea non è ancora terminata. Un combattente non va mai del tutto in pensione. Le sue parole continuano ad avere peso. «L’accordo di pace firmato nel 1998 dipendeva dall’Unione europea», spiega Adams, cantilenando. «Senza la Ue, non sarebbe stato possibile. Il fondamento di quell’intesa era il consenso, l’idea che il conflitto e ogni dissenso che fosse rimasto dopo il conflitto venissero risolti tenendo conto delle opinioni della maggioranza, anziché delle ragioni della forza. Ebbene, nel referendum britannico del 2016 una netta maggioranza di nord-irlandesi ha votato per rimanere in Europa». L’intenso dibattito in corso a Londra su come limitare o addirittura capovolgere la Brexit con un secondo referendum non gli interessa; la discussione sulla possibile permanenza de facto o formale dell’Irlanda del Nord nel mercato comune o nell’unione doganale, per mantenere “aperto” come ora il confine, lo annoiano come dettagli secondari. Nemmeno si scalda su cosa farà la Scozia, dove nel referendum ha votato per la Ue una maggioranza ancora più ampia che in Irlanda del Nord. «La questione dell’indipendenza scozzese riguarda gli scozzesi. Quanto agli inglesi, facciano quello che vogliono su un eventuale secondo referendum. Io mi occupo di quello che possono e dovranno fare gli irlandesi, non solo del Nord ma di tutta la nostra isola. E dico che la Brexit rende i tempi maturi per un referendum nella totalità dell’Irlanda sulla riunificazione, anzi sulla creazione di una nuova Irlanda, somma delle due parti. Spetterà al consenso democratico stabilire il nostro futuro. Personalmente, non ho dubbi su come finirà. Resta solo da stabilire il quando». La sua erede Mary Lou McDonald fissa una scadenza: «Faremo il referendum per la riunificazione irlandese entro dieci anni». Il loro ottimismo di Adams ha due motivazioni. La prima si può notare nei reparti di ostetricia: in Irlanda del Nord, i cattolici fanno più figli dei protestanti. Belfast ha già un sindaco cattolico, gli indipendentisti diventeranno maggioranza in tutta la regione. La guerra si può vincere anche nelle culle. La seconda motivazione affonda nella storia.
Per i suoi detrattori, Gerry Adams è il capo occulto di un’organizzazione terroristica che ha giustificato omicidi, bombe e sangue per oltre 30 anni in accordo con l’Ira. Per i suoi estimatori, è l’uomo di pace che ha saputo guidare faticosamente il movimento repubblicano verso la rinuncia alla lotta armata e la ricerca di una soluzione politica. «Vorrei che nessuno fosse mai stato ucciso», dice nell’ora del suo ritiro. «Ma è importante ricordare che un movimento popolare di liberazione nazionale come il nostro è stato capace di trovare un’alternativa alla guerra». Sulla questione se lui sia stato o meno un capo dell’Ira, non solo dello Sinn Fein, taglia corto: «Non ho mai preso le distanze dall’Ira. L’ho sempre difesa, anche se talvolta l’ho criticata: per esempio condannai l’attentato nel pub di Birmingham (nel 1974: causò 21 morti e 186 feriti, ndr.), quello fu un errore. Ma puoi criticare, dare giudizi morali, solo quando ti metti nelle scarpe di chi critichi». È come riconoscere che quelle scarpe le indossava a sua volta. «Adams si è guadagnato il mio rispetto», ricorda a Londra Jonathan Powell, capo di gabinetto a Downing Street negli anni di Tony Blair e capo negoziatore britannico nella lunga trattativa per arrivare all’accordo del Venerdì Santo, «perché ha portato soprattutto sulle sue spalle l’onere di persuadere i duri dell’Ira a deporre le armi. Sapendo che, se avesse sbagliato una mossa, avrebbe potuto pagare con la vita». Per descrivere il leader dello Sinn Fein, l’ex consigliere di Blair rammenta uno scambio di battute nei giorni più intensi del negoziato. «La cosa che mi piace di te, Jonathan, è che arrossisci quando menti», gli disse Gerry. «A differenza di te», rispose Powell. Tutti scoppiarono a ridere. Tuttavia c’era poco da scherzare. Quando Adams e il suo partner Martin McGuinness invitarono Powell a trattare nel cuore della notte in un’isolata fattoria lungo il confine tra repubblica irlandese e Irlanda del Nord britannica, con un trattore che andava su e giù per i campi allo scopo di coprire le voci e disturbare eventuali ascolti indesiderati, l’inviato di Blair replicò: «Vengo, a patto che non mi uccidiate». Non era una spiritosaggine. Arrivando da solo all’aeroporto di Belfast, caricato su un’auto da due tizi taciturni dall’aria losca, portato a destinazione con un lungo giro nella campagna per fargli perdere l’orientamento, Powell temeva che da un momento all’altro il veicolo si arrestasse in un viottolo buio, sbucasse fuori un commando dell’Ira e lo fucilasse su due piedi. Quando viceversa fu Adams a fargli visita per la prima volta a Downing Street, il leader dello Sinn Fein lasciò i presenti interdetti commentando: «E così questo è il posto dove è cominciato tutto». Powell fraintese. «Sì, il colpo di mortaio cadde nel giardino dietro di lei», osservò cupo. «La finestra andò in frantumi. I ministri si gettarono sotto il tavolo per mettersi al riparo. C’era anche mio fratello. Si salvò per un pelo». Nelle sua visione a breve termine, il capo dello staff pensava che il leader nord-irlandese si riferisse allo spregiudicato attacco dell’Ira del 1991, uno dei tanti tentativi di assassinare il primo ministro britannico. Ma il suo interlocutore scosse la testa. «Non ha capito. Intendevo che qui cominciò la guerra civile irlandese, perché in questo edificio Michael Collins firmò il trattato del 1921 che diede l’indipendenza all’Irlanda. Al prezzo di dividerla in due». Occorre una visione a lungo termine per comprendere la questione irlandese. A lungo termine verso il futuro, così come verso il passato.
Grande meno di un terzo dell’Italia, con una popolazione totale di neanche 7 milioni fra la repubblica irlandese e l’Irlanda del Nord (anche detta Ulster) britannica, l’Isola di Smeraldo – come è soprannominata per il colore dei suoi prati perennemente bagnati dalla pioggia – rimase abitata per secoli da un gruppo di origine celtica, i gaelici, dai quali deriva tuttora la sua lingua ufficiale (l’inglese è soltanto il secondo idioma nazionale: non per nulla la denominazione ufficiale dello stato è Eire, richiamo a una dea mitologica che aiutò i gaelici; e primo ministro si dice Taoiseach). Dal 400 dopo Cristo iniziò l’opera di evangelizzazione da parte dei primi missionari cristiani, tra cui il monaco Patrizio, diventato in seguito il santo patrono dell’isola. Dopo il crollo dell’Impero romano furono proprio i monaci irlandesi a rivitalizzare monasteri dalla Scozia alla Puglia, ricopiando instancabilmente a mano antichi libri e codici che altrimenti sarebbero andati perduti e perciò giudicati i salvatori dello scibile greco-romano, come racconta il saggio di un teologo americano, “How the Irish saved civilization”. Ma nel dodicesimo secolo in Irlanda iniziarono le invasioni degli inglesi. Nel 1541 Enrico VIII, il re d’Inghilterra con sei mogli, autore dello scisma anglicano dalla chiesa di Roma per potersi risposare a suo piacimento, si proclamò anche re d’Irlanda. Da allora ci vollero 400 anni perché la lotta per l’autonomia irlandese sfociasse nel Trattato firmato a Downing Street da Michael Collins, uno dei leader dell’insurrezione contro la Gran Bretagna e poi presidente del governo provvisorio irlandese, l’atto a cui si riferiva Adams nella conversazione con Powell a Downing Street. Da quella firma grondò altro sangue. Una parte degli insorti irlandesi, contraria a lasciare una parte dell’isola al Regno Unito, non riconobbe l’accordo. Ne seguì una guerra civile fratricida, nel corso della quale Collins venne assassinato dai suoi avversari, tragico episodio che ha ricevuto una notorietà mondiale grazie a un bel film del 1996, “Michael Collins”, con Liam Neeson nel ruolo del protagonista.
Dopo la fatale firma di Collins, la piena indipendenza dell’Irlanda richiese altri vent’anni, passando attraverso la neutralità irlandese nella seconda guerra mondiale, l’abolizione della monarchia (fino a quel momento il re britannico restava capo dello Stato, come avviene ancora oggi in Canada e Australia), la proclamazione della repubblica e l’uscita dal Commonwealth. La rottura con l’organizzazione che riuniva (e riunisce tuttora) le ex colonie britanniche aveva un significato fortemente simbolico. Gli odierni unionisti protestanti dell’Irlanda del Nord sono i discendenti dei coloni inglesi mandati a espropriare le terre degli irlandesi, ribattezzandole contea dell’Ulster. La lotta per riunificare l’Irlanda del Nord britannica con la repubblica d’Irlanda è vista da Gerry Adams e i suoi seguaci alla stregua dell’ultimo capitolo della decolonizzazione post- imperiale. Ancora prima del Trattato del 1921 che concesse l’indipendenza a tre quarti dell’isola, i coloni inglesi iniziarono a formare una milizia armata, l’Ulster Volunteer Force (Uvf), un corpo paramilitare che crebbe fino ad avere 90mila uomini, un arsenale di armi acquistate clandestinamente dalla Germania e l’appoggio a Londra di personaggi come lo scrittore Rudyard Kipling. Due fazioni in armi, in un territorio così piccolo che si attraversa in auto dalla mattina alla sera, erano la ricetta per un’altra guerra civile: nord- irlandese stavolta. Da una parte, i cattolici che volevano l’indipendenza in tutta l’isola, non soltanto in tre quarti, rappresentati dall’Ira e dal suo braccio politico, lo Sinn Fein, oltre che da vari gruppi armati dissidenti; dall’altra i protestanti lealisti fedeli alla monarchia britannica e ben decisi a rimanerci attaccati, rappresentanti dall’Uvf e da una pletora di partiti e gruppuscoli non meno armati dei cattolici. La contrapposizione ribollì per qualche decennio come un conflitto a bassa intensità. Quindi, nel 1969, esplose in una vera e propria guerra, con attentati (non limitati all’Irlanda del Nord ma anche in casa dell’invasore originale, il nemico ultimo, l’Inghilterra: molto prima di conoscere il terrorismo di al Qaeda e dell’Isis, Londra imparò a convivere con la costante minaccia delle bombe dell’Ira) e repressioni, omicidi e vendette, marce di protesta e sparatorie nelle strade. I “Troubles”, come sono stati chiamati i trent’anni successivi: classico understatement inglese, perché quei “problemi” o “guai” che dir si voglia hanno provocato decine di migliaia di morti e di feriti, facendo diventare Belfast simile a Beirut o Bagdad: la città più violenta e pericolosa d’Europa.
«La cosa che so bene di Gesù è che perdonava, non condannava», ammonisce Gerry Adams. «Tratta la gente con dignità e ti risponderà con dignità. Trattala male e ti risponderà male». Come formula per riassumere i Troubles è riduttiva, ma non sbagliata. I cattolici dell’Irlanda del Nord si sono sentiti a lungo maltrattati e hanno risposto trattando male, talvolta molto male, la controparte. Naturalmente la religione in questo trentennale conflitto non c’entra, almeno non direttamente: era e rimane una disputa etnico- nazionale, territoriale. Ma sono stati i diritti calpestati dei cattolici ad alimentare la rabbia poi sfociata nella guerra civile: discriminazioni sul lavoro, sull’accesso a case popolari, sulle ripartizioni elettorali. Non c’è un momento esatto in cui cominciarono le ostilità: fu un progressivo surriscaldamento fatto di scontri, dimostrazioni, disordini. Come in altri conflitti della stessa epoca, a partire dalla guerra in Vietnam, la presenza militare britannica continuò a crescere, provocando in parallelo un aumento delle operazioni clandestine per contrastarla. Il primo tratto di muro fu eretto a Belfast nel 1969: era lungo poche centinaia di metri e doveva servire soltanto per sei mesi. Alla fine la barriera si è estesa per 34 chilometri, fuori e dentro il perimetro cittadino, separando Falls Road, la strada principale del quartiere cattolico, da Shankill Road, la strada principale del quartiere protestante. Barricate e divisioni si moltiplicavano in tutta la regione. La frontiera con la repubblica d’Irlanda, costellata di torrette, filo spinato, meticolosi controlli, era a sua volta una specie di muraglia. Trent’anni di guerra, costellati di atrocità. Bloody Sunday, il massacro di 13 civili disarmati da parte dell’esercito britannico a Derry, il 30 gennaio 1972, tramutato molto tempo dopo in un inno rock dalla band irlandese U2. L’assassinio nel 1979 di lord Mountbatten, zio del principe Filippo, il marito della regina Elisabetta, ucciso insieme a un nipote e altre due persone da una bomba piazzata nella sua barca. La morte per sciopero della fame di dieci detenuti, il primo dei quali fu Bobby Sands, nel famigerato carcere di Belfast, nel 1981. La bomba del 1982 a Hyde Park che uccise 11 soldati del reggimento a cavallo della regina durante una parata. L’attentato del 1984 al Grand Hotel di Brighton, durante l’annuale congresso del partito conservatore, che uccise cinque persone, incluso un deputato, mancando però l’obiettivo, che era colpire Margaret Thatcher. «Nell’ultimo quarto del ventesimo secolo», sintetizza l’ex capo negoziatore britannico Powell, «l’Irlanda del Nord poneva la più grande minaccia terroristica che il nostro Paese avesse mai confrontato e il maggiore timore per l’esercito britannico». Almeno quattro primi ministri dedicarono considerevole tempo a cercare di fermare o almeno attenuare questa minaccia: Edward Heath, Harold Wilson, la “lady di ferro” e John Major. Nessuno ottenne risultati. Poi, nel 1997, a Downing Street arrivò un certo Tony Blair e un anno dopo ci fu la firma del Good Friday Agreement. «Non era la fine della guerra civile, come speravamo, bensì soltanto l’inizio del processo di pace», riconosce Powell. In effetti ci vollero altri dieci anni per completare il processo con l’insediamento a Belfast di un governo autonomo congiunto, che apriva la strada non solo alla devolution promessa da Blair anche a Scozia e Galles, ma in primo luogo alla pacifica convivenza al governo tra acerrimi nemici. Qualcosa di inconcepibile fino a non molto tempo prima. «Vedere Ian Paisley, nel ruolo di premier protestante, e Martin McGuinness, in quello di vice-premier cattolico, il primo meglio conosciuto come Dottor No perché non sapeva dire altro che no a ogni offerta di compromesso, il secondo come il comandante e autore materiale di innumerevoli azioni dell’Ira, costituiva ai miei occhi niente di meno di un miracolo», riconosce l’ex capo di gabinetto di Blair. Il leader laburista, sottolinea Powell, ebbe un merito non indifferente nella realizzazione della pace. «Ho perso il conto delle volte in cui sono tornato esausto da una sessione di negoziati inconclusivi per dire a Tony che era finita e lui si rifiutava di arrendersi, ordinandomi di riprendere i contatti con le due parti, di riprovarci».
Eletto primo ministro con una maggioranza schiacciante, sulle ali di un entusiasmo popolare e di aspettative di rinnovamento epocali, ammantato dallo slogan della “Cool Britannia” che avrebbe effettivamente trasformato e modernizzato la Gran Bretagna, fino alla guerra in Iraq, che gli costò la popolarità e il potere, Blair ebbe un’intuizione in fondo semplice: per raggiungere un accordo, ciascuna delle due parti doveva sacrificare qualcosa. Il suo compito era convincerle che quel sacrificio fosse vantaggioso nel lungo termine. «Il mio scopo non è un’Irlanda unita», disse a David Trimble, leader dei lealisti protestanti al tavolo dei negoziati. «L’Irlanda del Nord fa parte del Regno Unito quanto l’Inghilterra, la Scozia e il Galles. Io credo nel Regno Unito. Voglio preservarlo». Ma l’unico modo di mettere fine al conflitto era portare i repubblicani dello Sinn Fein al disarmo, al dialogo e a una contesa politica anziché militare: dunque non trattarli più da terroristi, riconoscerli, coinvolgerli, mettersi d’accordo con loro invece di combatterli. Sia pure con estrema riluttanza, alla fine Trimble si lasciò persuadere. Era una posizione nuova per il Labour, che in passato, specie dalle file dell’opposizione, aveva espresso simpatie per “l’unità irlandese”. Ma il premier britannico aveva una promessa, in cambio del disarmo, anche per i repubblicani: «L’Irlanda del Nord fa parte del Regno Unito perché questo è il desiderio della maggioranza dei suoi abitanti. Resterà parte del Regno Unito finché le cose stanno così. Il principio del consenso è alla base della politica del mio governo in Irlanda del Nord. È la chiave di tutto. Non c’è possibilità di cambiare lo status dell’Irlanda del Nord senza il chiaro e formale consenso della maggioranza dei suoi abitanti». E anche Gerry Adams si lasciò convincere da questo concetto. Sembrava escludere la riunificazione. In realtà aveva un secondo significato, che lui colse subito: rendeva la riunificazione irlandese possibile per stessa ammissione di Londra. A una sola condizione: che fosse la maggioranza a volerla e che avvenisse pacificamente. E anche questo rappresentava una svolta. «L’Irlanda del Nord è un problema politico, non una questione di sicurezza», gli rispose il leader dello Sinn Fein, «perciò può essere risolto soltanto politicamente». Ma esisteva anche un problema di sicurezza. “Decommissionare” le armi, l’eufemismo usato dai negoziatori per intendere che gli arsenali andavano smantellati, era una richiesta difficile da porre all’Ira, in cambio soltanto di belle parole sul consenso. «Non voglio creare un Hamas irlandese», ammoniva Adams di continuo, rivolto agli interlocutori inglesi. Non voleva firmare una pace che gli irriducibili dell’Ira avrebbero rifiutato, scavalcandolo e continuando la guerra: come era successo pochi anni prima ad Arafat nella pace con Israele, mai accettata dai fondamentalisti di Hamas. Le faide intestine nel fronte repubblicano erano antiche come la lotta per l’indipendenza dalla Gran Bretagna. L’assassinio di Michael Collins, liberatore dell’Irlanda per alcuni, traditore dell’Irlanda per chi gli sparò, bastava a testimoniare il rischio che correva anche Adams.
A sua volta, pure Blair rischiava qualcosa. Ai primi incontri pubblici con Adams e con la delegazione dello Sinn Fein, il primo ministro britannico doveva sopportare i cori di una folla di “infernali nonnine”, come vennero chiamate dai media, che gli gridavano «traditore» e gli tiravano guanti di gomma, affermando che avrebbe dovuto indossarli prima di «stringere la mano a un assassino come Gerry Adams». Non potevano credere che il loro premier negoziasse con “dei terroristi”. Non poteva crederci, effettivamente, nemmeno il protestante Trimble. Le collusioni fra unionisti ed esercito britannico erano state tali e tante, nei trent’anni dei Troubles, che le due forze venivano considerate più che alleati o complici: una cosa sola. L’idea che il premier del Regno Unito si atteggiasse ad arbitro imparziale sembrava inconcepibile al capo degli unionisti. Ai primi incontri con Adams, Trimble nemmeno gli rivolgeva la parola: parlava solo a Blair o a Powell, come se Adams non fosse nemmeno nella stanza. E quando Adams rispondeva, se Trimble aveva qualcosa da obiettare si rivolgeva di nuovo a Blair o a Powell. «Era una pantomima», ricorda il negoziatore britannico. Con momenti di pura comicità, come la volta in cui Trimble andò al gabinetto e si ritrovò a urinare di fianco ad Adams. Questi provò ad attaccare discorso con i calzoni aperti. «Non facciamo i bambini», fu la secca risposta dell’altro: il leader unionista terminò le sue funzioni, lavò le mani e uscì dalla toilette senza aggiungere altro. Vent’anni più tardi, insignito del Nobel e del titolo di lord, Trimble non sembra affatto ammorbidito. «La vera ragione per cui lo Sinn Fein e in ultima analisi l’Ira vennero al tavolo del negoziato era che li avevamo battuti sul campo», afferma convinto. «Si sentivano militarmente sconfitti. Non avevano altra scelta che implorare la pace». Le molte ore trascorse insieme ad Adams, con cui alla fine parlò senza intermediari, non gli hanno fatto cambiare impressione sul suo conto: «Oh, certo, anche Gerry avrebbe voluto ricevere il Nobel. Smaniava per averlo. Ma sarebbe stato vergognoso condividere il premio con il capo di un’organizzazione terrorista». Gli si può far notare che lo stesso pensava probabilmente il premier israeliano Rabin di Arafat, eppure il Nobel andò a entrambi dopo la stretta di mano sul prato della Casa Bianca nel 1993. Trimble alza le spalle. Il paragone non lo tocca. Rabin pagò con la vita la pace – per quanto effimera – con i palestinesi. Anche Trimble ha pagato per quella con l’Ira. Alle successive elezioni nord-irlandesi, il suo partito ha perso la maggioranza. Oggi è politicamente irrilevante. Gli unionisti protestanti preferiscono farsi rappresentare da altri. Non gli hanno perdonato di avere stretto la mano al nemico. Trimble condivise il Nobel con John Hume, leader dei socialdemocratici nord-irlandesi, primo repubblicano a indicare il dialogo come via d’uscita dal conflitto, anche lui coinvolto nel negoziato, ma con un ruolo infinitamente meno importante di Adams.
L’accordo del Venerdì Santo fu preceduto da giornate convulse. Il 7 aprile Blair presiedette un summit dei leader della sinistra europea a Londra: nove primi ministri progressisti ( altri tempi), tra cui Romano Prodi per l’Italia. Ma il premier britannico entrava e usciva di continuo dalla sala per telefonare a Powell a Belfast e sapere a che punto era il negoziato. «Tutti gli sconsigliavano di raggiungerci», ricorda Powell. «C’era il timore che, se la trattativa si fosse complicata, Tony ne sarebbe divenuto ostaggio: non avrebbe potuto andarsene con in mano un fallimento, ma restare lo avrebbe costretto a fare concessioni che non poteva permettersi». Blair ignorò il parere dei suoi collaboratori e partì per l’Irlanda del Nord. Distratto da pensieri più importanti, dimenticò di preparare un discorso per i giornalisti al suo arrivo: «Aveva l’abitudine di ripeterlo due o tre volte a se stesso, per pronunciarlo con completa sicurezza quando veniva il momento, ma fu costretto a improvvisare», ricorda Powell. L’istinto del grande comunicatore lo sorresse: «Un giorno come questo», esordì, «non è un giorno per gli slogan». Poi ne confezionò uno perfetto: «Le mani della storia sono sulle nostre spalle». Nelle cinquantasei ore successive, nessuno dormì, a eccezione di qualche pisolino sui divani. «Adams e McGuinness avevano passato talmente tanto tempo insieme che erano come una vecchia coppia», ricorda Powell. «Recitarono sino alla fine la sceneggiata del poliziotto buono, Gerry, e del poliziotto cattivo, Martin. Facevano di tutto per farci credere che il capo vero fosse McGuinness. Ma al momento cruciale di decidere, McGuinness aspettava l’imbeccata da Adams. Il vero capo era Gerry». Adams cerebrale e McGuinness emotivo, il primo capo politico, il secondo militare: qualcuno li definiva lo yin e yang del movimento repubblicano nord- irlandese. Ma l’ultima spinta all’accordo arrivò per telefono, dall’America. Blair pregò Bill Clinton di chiamare Adams. Il presidente degli Stati Uniti aveva già il suo rappresentante sul campo, il senatore George Mitchell, uno dei più esperti politici di Washington. Ma Clinton, rodato dalla maratona negoziale fra israeliani e palestinesi, sapeva quanto la persuasione personale contasse in queste situazioni. Chiamò Adams ben tre volte, all’ 1, alle 2: 30 e alle 4: 45 di notte, ora di Belfast. Da sempre gli Usa, la nazione che aveva accolto milioni di immigrati irlandesi quando in Irlanda c’era la fame, erano stati vicini alla causa dell’indipendenza irlandese. Intanto Blair si lavorava Trimble e la delegazione unionista. All’alba del 10 aprile, Venerdì Santo pasquale, l’accordo era pronto. Più tardi, quando Blair e Powell montarono su un elicottero militare per il volo fino all’aeroporto di Belfast dove li attendeva un aereo per riportarli a Londra, il capo di gabinetto ricevette una telefonata da Buckingham Palace: la regina voleva parlare con il primo ministro. Forse per complimentarsi, oppure perché ansiosa anche lei di sapere, come e più di tutti, cosa c’era esattamente dentro quell’accordo su un pezzo del suo regno. Powell rispose che Blair in quel momento non poteva parlare con Sua Maestà. «In effetti eravamo già in elicottero, c’era un frastuono assordante». Sfiniti, fisicamente e psicologicamente, il funzionario, il premier e il portavoce Alastair Campbell che li accompagnava, furono presi da un riso isterico per la breve durata del viaggio in elicottero. «Anche se per tutto il tempo un militare con le gambe a penzoloni fuori dal portello aperto del velivolo teneva un cannoncino mitragliatore puntato sulla città sotto di noi». L’accordo era stato firmato. Ma era ancora presto per celebrare la pace. Per escludere che qualche fazione repubblicana dissidente provasse ad abbattere l’elicottero con il primo ministro britannico a bordo.
Quanto fosse prematuro celebrare, sarebbe diventato chiaro in seguito: da quel giorno ci sono voluti quasi altri dieci anni perché il processo di pace si completasse con la formazione nel 2007 del primo governo congiunto tra cattolici e protestanti, tra repubblicani e unionisti, in Irlanda del Nord. «Il Good Friday Agreement consisteva nel riconoscere e accettare un disaccordo», ammette Powell. Nessuna delle due parti rinunciava alle proprie aspirazioni. Ma entrambe – ecco la storica novità – accettavano di provare a realizzarle politicamente, non con la violenza. Un duplice referendum sancì il patto: approvato con il 94 per cento nella repubblica d’Irlanda, con il 71 per cento in Irlanda del Nord. Un 71 per cento costituito dal 96 per cento dei cattolici e dal 55 per cento dei protestanti: anche fra questi, seppure meno largamente, la maggioranza si espresse a favore dell’accordo. Le parole più belle le trovò Clinton. «Quando vado in Israele e in Palestina, dico: guardate l’Irlanda del Nord. Quando vado in India e in Pakistan che cercano di risolvere la crisi in Kashmir, dico: guardate l’Irlanda del Nord. Quando vado nello Sri Lanka e in tutte le altre regioni problematiche del mondo, dico: guardate l’Irlanda del Nord. La pace è possibile». Lezione che l’ex negoziatore britannico Powell traduce con un motto: «Se vuoi mettere fine a un conflitto, devi parlare con i tuoi nemici, non con i tuoi amici». Lo stesso dell’israeliano Rabin per giustificare la sua stretta di mano con Arafat.
Per un altro decennio, dal 2007 al 2017, la pace nord-irlandese ha sostanzialmente funzionato. Gli irriducibili nemici hanno governato insieme a Belfast, imparando non solo a parlarsi senza intermediari ma persino a ridere e scherzare insieme. L’Unione europea ha inondato di soldi l’Irlanda, quella repubblicana del Sud e lo spicchio ancora monarchico e britannico del Nord. Pace e benessere hanno gradualmente cambiato l’isola. Questa piccola nazione di emigranti ha cominciato ad attirare immigrati. Dublino si è riempita di grattacieli e – con l’incentivo dei benefici fiscali – di quartier generali dei giganti della rivoluzione digitale: Facebook, Google, Apple, Amazon. Il Paese che aveva la fama di essere il più tradizionalmente cattolico d’Europa non va più in chiesa con la frequenza del passato, mette sotto accusa cardinali e prelati per lo scandalo degli abusi negli orfanatrofi, approva commosso la legge sul matrimonio gay, si accinge a votare in maggio in un referendum per abrogare il divieto di aborto: con un nuovo primo ministro, Leo Varadkar, giovane, gay e figlio di un immigrato indiano. Chi avrebbe immaginato tutto questo?
La stessa Belfast, una volta sinonimo di barricate, oggi somiglia a un quartiere globalizzato di Londra. Autobus rossi a due piani e “black cab” identici ai taxi della capitale britannica portano carovane di turisti a fotografare i truci murales dell’ultimo muro d’Europa. L’Irlanda non sembra più quella dello stereotipo, terra di cavalli, dinamitardi, preti e scrittori. Ne ha avuti tanti e grandissimi, di scrittori, questa piccola terra abitata da un piccolo popolo: l’autore dell’Ulisse, Samuel Beckett, William Yeats, per citare tre capostipiti. E tanti contemporanei. «Dublino e Belfast distano appena un’ora e 40 di macchina», dice una di loro, Catherine Dunne. «Io abito in Irlanda, i miei parenti in Irlanda del Nord, ci facciamo visita di continuo senza nemmeno più renderci conto che c’è un confine». L’unico modo per accorgersene è badare ai cartelli stradali sui divieti di velocità, a un certo punto non più in chilometri, ma in miglia. «Certo, qualcuno può sognare un’Irlanda unificata», continua l’autrice del bestseller “La metà di niente” e molti altri romanzi, «ma quanto sangue è stato versato, quanto dolore consumato, per quel sogno? Ora a Nord e a Sud del confine è più importante per tutti avere la pace, il lavoro, un domani sicuro per i nostri figli». Sul lato opposto della frontiera, a Belfast, un altro scrittore, Sam Millar, ex guerrigliero dell’Ira, scappato in America per fuggire alla prigione, condannato a New York per una delle più grande rapine in banca nella storia americana (la gang era tutta di irlandesi), graziato da Clinton l’ultimo giorno di presidenza e tornato in patria a scrivere thriller autobiografici, dice qualcosa di simile: «Avrei dato la vita per l’Irlanda unita. Non sono sicuro che la vedrò io, ma sono sicuro che la vedranno i miei figli. Ma la vedranno come risultato di un processo politico. Non di un’insurrezione armata, come credevo da giovane».
Quindi è giunta la Brexit. Nel nuovo ufficio della sua fondazione a Londra, a due passi dalla Bbc, l’architetto della pace nord-irlandese la ritiene un pericolo mortale. «Non c’è mai stata una situazione in cui Irlanda e Irlanda del Nord erano una dentro e una fuori dalla Ue», osserva Tony Blair. «Prima erano entrambe fuori. Poi sono state entrambe dentro. Avere l’Irlanda nella Ue e l’Irlanda del Nord fuori è una minaccia alla pace. Una miccia sotto le ceneri della guerra civile. Che può riaccenderla». La Brexit diventerà, come si augura Gerry Adams, lo strumento per realizzare l’unificazione irlandese? «Non ne sono certo», frena l’ex premier laburista, «ma ne aumenta le chances. Capisco perché Adams e i repubblicani sentono crescere questa possibilità. L’Unione europea è stata la cornice dell’accordo di pace. Deposte le armi, accresciuto il benessere, non era più così importante stabilire se un cittadino era irlandese o nord-irlandese. Era prima di tutto europeo». Il passaporto della Ue è uguale a Dublino come a Belfast. Un nord-irlandese britannico può avere doppia cittadinanza, prendendo anche quella della repubblica d’Irlanda, e viceversa. La lingua che parlano è la stessa. Il confine è invisibile. «Senza la Ue, tutto questo si modifica», afferma Blair. «Nella mente della gente ancora prima che nelle norme». Come minimo, per tenere aperta la frontiera e mantenere l’impressione o l’illusione che l’isola sia già unita, l’Irlanda del Nord dovrebbe rimanere nel mercato comune e nell’unione doganale: questo prevede in teoria l’accordo raggiunto nel dicembre scorso fra il governo britannico e i negoziatori della Ue. «Ma è un accordo volutamente ambiguo», sostiene l’ex primo ministro, «destinato a vanificarsi quando dovrà passare dalla teoria alla pratica». Non ha torto. Arlene Foster, la leader del Democratic Unionist Party (Dup), il partito unionista nord-irlandese che ha spartito il governo a Belfast insieme allo Sinn Fein (fino a un anno fa, quando la Brexit ha messo fine all’intesa), ingoia il boccone appunto perché è ambiguo. «Se l’Irlanda del Nord resta nel mercato comune e nell’unione doganale, mentre il resto della Gran Bretagna ne esce, sarebbe come riconoscere che si è riunificata con la repubblica irlandese, che l’Irlanda del Nord non è più Gran Bretagna», avverte Foster. «E noi non lo permetteremo». Ha i mezzi per impedirlo: senza il voto del suo drappello di una decina di deputati, il governo di Theresa May cadrebbe, ci sarebbero nuove elezioni nel Regno Unito e secondo i sondaggi le vincerebbe il laburista Jeremy Corbyn. Beninteso, la leader del Dup non vuole neanche questo: per gli unionisti nord-irlandesi, Corbyn è “l’amico dell’Ira”, di cui ha sempre appoggiato la causa. E d’altra parte, alleandosi con il Dup, il governo britannico ha perso il ruolo di arbitro imparziale che aveva cercato di assumere negli ultimi vent’anni in Irlanda del Nord. Dal dilemma non si intravede via d’uscita. Sembra il zugzwang degli scacchi: la posizione in cui, qualunque mossa fai, subisci scacco matto. «No, una soluzione esiste ed è l’unica che consente di avere un governo congiunto a Belfast, un’Irlanda del Nord pacificata e un Regno Unito che non rischia di perdere pezzi», insiste Blair. «È la rinuncia alla Brexit. Perciò continuo a sperare in un secondo referendum. Cambiare idea, davanti a una migliore valutazione dei fatti, non è antidemocratico, è l’essenza stessa della democrazia. E fino all’ultimo minuto possibile mi batterò affinché il popolo britannico abbia l’opportunità di tornare a votare, scongiurando il peggiore errore politico della nostra storia». Nel frattempo, ogni sera dopo il tramonto, quando in giro non si vedono più turisti, le porte metalliche del muro di Belfast vengono richiuse ermeticamente. Cattolici di qua, protestanti di là. Si riapre all’alba. Per stare nel sicuro.
Pioviggina. Sulla strada da Belfast a Dublino, la stessa che la scrittrice Catherine Dunne percorre per visitare la sorella, sorge una fattoria come tante. Non dissimile da quella in cui due militanti dell’Ira portarono Jonathan Powell a negoziare in segreto con Gerry Adams, una notte di vent’anni fa. La frontiera invisibile fra le “due Irlande” è a una manciata di chilometri. Ai lati del nastro d’asfalto, pecore brucano l’erba senza sapere se è britannica o irlandese. «Se su questa linea di confine torneranno i posti di blocco, diventeranno obiettivi per attacchi repubblicani», predice George Hamilton, il capo della polizia nord-irlandese. Nei fienili che punteggiano la campagna, l’alto ufficiale ne è consapevole, sono nascoste abbastanza armi per ricominciare la guerra civile. La stessa guerra che davanti a questa fattoria vide cadere tre fratelli cattolici all’epoca dei Troubles, come ricorda un memoriale: John, Brian e Anthony, 24, 22 e 17 anni, “massacrati dai paramilitari”, informa una targa di marmo. «Erano i miei fratelli», dice Eugene, il solo sopravvissuto, perché andò a giocare a pallone. Abita ancora da queste parti. Viene quotidianamente a lucidare il monumento ai suoi fratelli. «La pace fu firmata il Venerdì Santo della Pasqua 1998», sospira, «e noi aspettiamo ancora il sabato della Resurrezione. Ma sento che si avvicina. Sento che quel giorno si avvicina». Tutto intorno, prati verde smeraldo, placide mucche, morbide colline: l’Irlanda eternamente bagnata di pioggia. D’un tratto, l’insistente acquerugiola s’interrompe, fra le nubi sbuca il chiarore e una magica luce addolcisce l’orizzonte. «Ogni volta che attraverso il canale del Nord ed entro in Irlanda comincia a piovere», amava ripetere Tony Blair nei frequenti viaggi del negoziato. «Ma vale la pena sopportarlo. Perché poi, quando viene fuori il sole, è ancora più bello».