la Repubblica, 2 marzo 2018
La macchia che diventò algoritmo
Negli anni Sessanta, al momento di scegliere la scuola superiore, i miei genitori mi sottoposero al test di Rorschach. Lo trovai interessante; mi mostrarono le dieci tavole con le macchie e le interpretai. Ebbi il responso: non m’iscrissero all’istituto d’arte come desideravo. Per qualche anno mi sentii, nonostante ciò, un privilegiato, dato che solo un altro compagno, il più bravo, aveva letto le macchie. Non sapevo che vent’anni prima in America venti milioni di persone erano state sottoposte a test standardizzati in ambito educativo, e che uno dei più diffusi era proprio il test delle macchie creato da un medico svizzero, Hermann Rorschach.
Adesso, quasi cinquant’anni dopo, so tutto, o quasi, su di lui e sulla storia del suo procedimento per scandagliare la psiche umana, grazie al libro di Damion Searls, Macchie d’inchiostro (traduzione di B. A. D’Onofrio, Il Saggiatore).
Rorschach era nato nel 1884 a Zurigo, figlio di un pittore, insegnante di disegno. La sua storia è piena di difficoltà economiche per via della morte prematura della madre. La matrigna non era una persona facile. Hermann restò di nuovo orfano, in balia di questa donna dal duro carattere. Tuttavia il giovanotto crebbe equilibrato, persona positiva e ottimista.
Diventato medico, fu psichiatra nei manicomi che la Confederazione aveva istituito tra le montagne. L’epoca in cui crebbe e studiò Hermann è una delle più fertili dal punto di vista della psicologia. Freud pubblicava i suoi libri, e in Svizzera Jung scriveva Tipi psicologici. Era un periodo complesso: medium, apprendisti stregoni, terapeuti di vari indirizzi, psicoanalisti, come ha raccontato Henri F.
Ellenberger in La scoperta dell’inconscio (Bollati Boringhieri). Rorschach era un talentuoso medico che si occupava di schizofrenici, maniaci, depressi e psicotici. Studiava e leggeva di tutto, e sapeva disegnare. Aveva appreso anche il russo e si era innamorato di una donna di quel Paese, dove era stato a lavorare prima della Rivoluzione d’ottobre. Insomma non proprio un provinciale. Non era neppure l’unico che cercava un metodo visivo per capire chi erano i suoi pazienti. Già in diversi avevano trafficato con macchie. Persino Jung ci aveva provato. La cosa non nasceva dal nulla. Ernst Haeckel, biologo, filosofo e artista, aveva pubblicato un meraviglioso libro Kunstformen der Natur, fondato sulla simmetria, ancora oggi ristampato per le immagini che contiene. Se poi si aggiunge che il talento disegnativo di Hermann si esprimeva in vari modi, si può capire come siano nate le macchie del suo test. In realtà non è però così immediato; neppure il libro di Searls lo spiega del tutto. C’è un mistero. Com’è possibile che le persone, guardando e descrivendo che cosa vedono dentro le macchie, possano rivelare aspetti reconditi della personalità? La chiave sta nel rapporto tra vedere e sentire.
Searls racconta come si era arrivati a trovare una relazione tra la proiezione del sé e l’interiorizzazione del mondo, e come il metodo scelto dallo psichiatra svizzero avesse a che fare con l’empatia, che in origine significa “sentire dentro” e riguarda il sé, non il rapporto con gli altri. Era quella l’epoca in cui venivano inventati i raggi X e l’inconscio, che nessuno ha mai visto, ma che esiste e ci influenza.
Guardando le tavole con le macchie, per lungo tempo non divulgate se non nel setting del test, viene spontaneo chiedersi: è arte o scienza? Rorschach muore improvvisamente a trentasette anni per un’appendicite perforante non diagnosticata dalla moglie medico né dai colleghi. Aveva appena pubblicato il libro Psicodiagnosi (1921) in 1200 copie, dove spiegava il test, ricevendo una cifra irrisoria. Tuttavia il test non si è estinto con lui, anzi ha prosperato. La storia di come sia approdato in America e sia diventato per almeno quarant’anni il più diffuso metodo diagnostico di ragazzi, militari, donne, malati di mente e criminali, è affascinante; Searls gli dedica metà del volume. La “psicologia che vede” alla fine ha trionfato in un mondo ansioso di valutare, non più il carattere delle persone, bensì la personalità.
Perché questo è interessante: capire come dagli anni Trenta del XX secolo in America abbia trionfato l’idea di mettere a nudo le singole personalità. Diciassette anni dopo la morte del suo inventore, le macchie «furono ripensate sia in psicologia come nella cultura in generale come il metodo proiettivo per eccellenza e il nuovo paradigma della moderna personalità». Nacque allora una narrazione simbolica per cui il mondo è un luogo buio e caotico e non ha altro significato al di là di quello che noi gli diamo.
Domanda: ma io percepisco oppure creo la forma delle cose?, si chiede Searls. Rorschach presupponeva che esistesse un sé creativo, folle o normale non importa, che forgia il mondo così come lo vede. Sarà lo psichiatra o psicologo a decifrare quel mondo.
La personalità esiste ed è valutabile. Oggi sembra che le dieci tavole delle macchie siano meno usate. Certo è che furono mostrate in molte occasioni; ad esempio ai criminali nazisti processati a Norimberga. Göring era uno di loro. Il test lo valutò. Per gli psicologi americani che lo usarono il test di Rorschach stava allo psicologo clinico come lo stetoscopio al dottore. Ma come può funzionare un metodo che serve a comprendere la personalità creativa di un ragazzino e valutare una classe dirigente che ha sterminato milioni di persone? La risposta sta probabilmente nella intuizione di Rorschach: i risultati del test non sono parole, bensì modi di vedere. Il medico svizzero non ebbe modo di perfezionare il proprio metodo, morì troppo presto. Tuttavia possiamo ben dire che con le sue macchie ha anticipato gli algoritmi di oggi e il mondo che ora abitiamo: tutto è immagine.
Tutto è un modo di vedere, malattia mentale o normalità che sia.