la Repubblica, 2 marzo 2018
’Ndrangheta da esportazione gli affari dei boss alla fiera dell’Est
La Slovacchia scopre la mafia. Come drammaticamente accade sempre il sangue è l’unica prova dell’esistenza delle organizzazioni criminali.
Ján Kuciak – come sembra ormai evidente dalle indagini – ha pagato per il suo lavoro, per il suo impegno giornalistico.
Nell’ultimo periodo si stava occupando di un’inchiesta sui rapporti tra imprenditoria, ’ndrangheta e politica, un sistema che funziona sempre con lo stesso algoritmo: la ’ndrangheta porta il capitale, l’imprenditore lo investe, il politico agevola l’investimento in cambio di danaro e tutte le parti ne hanno un vantaggio esponenziale. Nei Paesi dell’Est la politica non riceve solo danaro, ma anche consenso politico, perché diventare hub degli investimenti mafiosi spesso provoca una crescita dopata dell’economia del proprio Paese.
Le organizzazioni criminali mafiose possono essere considerate i primi gruppi imprenditoriali occidentali ad aver avuto rapporti costanti con i regimi comunisti, l’autostrada che le organizzazioni criminali hanno usato per insediarsi in tutto l’Est Europa. Sotto i regimi le mafie non potevano comprare proprietà ma potevano contare su due cose: la corruzione politica per ottenere la gestione dei traffici illeciti e una sorta di monopolio di prodotti occidentali che venivano contrabbandati nei Paesi del socialismo reale.
Ecco perché alla caduta del Muro di Berlino non c’era nessuna azienda più inserita ad Est delle organizzazioni criminali italiane. Le mafie italiane diventarono la stampella a cui si appoggiò la fragile borghesia dei Paesi dell’Est in ascesa economica: agirono da mediatori con l’imprenditoria italiana che non trovava un interlocutore affidabile nell’Europa post-comunista. Le aziende italiane volevano dislocarsi ad Est, ma trovare una via legale era praticamente impossibile, perché il regime aveva lasciato solo macerie e un sistema burocratico completamente fallito. Affidarsi al clan significava trovare un’agenzia di servizi che in poco tempo sbrigava le formalità amministrative e rendeva operativa l’azienda. Alle aziende occidentali le mafie garantivano manodopera a basso costo, velocità di produzione e assenza di sindacati: il paradiso degli imprenditori. È quello che, come ha raccontato il pentito Carmine Schiavone, fece il gruppo Bardellino. Francesco Schiavone “Cicciariello” ha investito in Slovacchia e Polonia, Luigi Diana ha investito in Ungheria, la cosca Grande Aracri ha investito in Romania, Antonio Prudentino (Sacra corona unita) investiva in Albania, Cosa nostra ha investito nel ciclo dei rifiuti in Romania. La lista è lunghissima e a questa si associa una possibilità di latitanza nei Paesi dove si investe: Ugo De Lucia a Poprad (Slovacchia), Pietro Licciardi a Praga, Giancarlo De Luca a Nagylak (in Ungheria al confine con la Romania), Pino Bonavita a Praga, Pasqualino Ariganello ad Alba Iulia (Romania), Antonio Cella a Glogow (Polonia), Pasquale Avagliano a Timisoara (Romania).
Kuciak, come altri rari e preziosi giornalisti dell’Est, sopperisce alla mancanza di indagini delle polizie e di attenzione politica indagando su queste dinamiche, e porta alla luce, in un Paese dove non esiste il reato di associazione mafiosa, gli interessi nell’economia slovacca di imprenditori legati alla ’ndrangheta: famiglie calabresi vicine alle ’ndrine di Bova Marina (appartenenti a un territorio su cui insiste l’aristocrazia della mafia calabrese) che dopo la caduta del Muro sono arrivate in Slovacchia per prendere in mano il business agricolo del Paese, usato come copertura per ottenere i fondi europei messi a disposizione per il settore, con il silenzio-assenso del governo di Robert Fico.
Ma il primo grande business che le organizzazioni italiane cercano di monopolizzare nei Paesi dell’Est è quello delle armi. La Cecoslovacchia, rispetto agli altri Paesi est-europei, vanta un bene profondamente ambito, un bene progettato nel 1958 dall’Ing. Jirí Cermák: il VZ58, un fucile d’assalto da 800 colpi al minuto, variazione dell’AK47, ma meno costoso. Sulle migliaia di fucili nei depositi dell’ex esercito cecoslovacco nasce il grande affare delle organizzazioni criminali italiane. Le armi cecoslovacche non fanno gola solo alle mafie italiane: gli attentatori dell’Isis che nel 2015 colpirono la sede di Charlie Hebdo e il supermercato Hyper Cacher di Parigi imbracciavano armi rottamate dell’esercito comunista cecoslovacco. Il business delle armi con le mafie italiane riguarda tutta l’Europa dell’Est: nel febbraio del 1986 venne intercettata una telefonata in cui esponenti del clan Nuvoletta trattavano l’acquisto di un carro armato Leopard con l’allora Germania dell’Est.
Oltre alle armi la droga. In passato i flussi di droga avevano reso la Slovacchia territorio di transito (soprattutto dell’eroina afgana diretta in Occidente), ma con l’avvio delle compagnie low cost un turismo giovane è arrivato a Bratislava, una città impreparata al turismo rispetto a mete più famose come Praga, e quindi pronta per essere mangiata dal business illegale: dai ristoranti agli hotel, dalla marijuana alla coca, dalla prostituzione al gioco d’azzardo, gran parte degli affari è stata gestita dalle organizzazioni criminali.
Repubblica Ceca e Slovacchia sono sempre stati territori ambiti anche dalla mafia russa: il 31 maggio 1995 i poliziotti fecero irruzione nel ristorante di Praga U Holub? mente era in corso un summit tra alcuni membri dell’organizzazione di Semion Mogilevich e la Solntsevskaya Bratva e arrestarono 200 persone.
L’Est Europa è un buco nero: di riciclaggio e di presenza mafiosa, non solo italiana. Una responsabilità non secondaria è da attribuire alla Germania: la strategia delle mafie è quella di inserirsi in quello che si può considerare il “Commonwealth tedesco”, cioè i Paesi dell’Est europeo confinanti con la Germania. Il governo tedesco ha un ruolo economico importantissimo in questi Paesi, eppure sia nel proprio territorio sia fuori non porta avanti un controllo adeguato sui capitali finanziari, sulla filiera produttiva di merci realizzate a Est per aziende tedesche. La giurisprudenza tedesca e delle repubbliche dell’Est Europa è totalmente inadeguata ad affrontare la potenza militare ed economica delle mafie.
L’esecuzione di Ján Kuciak attribuita alla’ndrangheta svela un comportamento inedito delle organizzazioni criminali calabresi che nella loro storia hanno sempre evitato di attaccare giornalisti. Non sono in pochi a credere che i mandanti possano essere mafiosi italiani, ma gli esecutori killer slavi. Il perché è nei dettagli: l’esecuzione nell’appartamento, colpire la fidanzata alla nuca. È questa una prassi che non sembra in coerenza con l’agguato mafioso che in genere si fa in strada (anche per renderlo il più pubblico possibile). Ma solo le indagini ci faranno comprendere. Il metodo ’ndranghetista, e in generale delle organizzazioni italiane negli ultimi anni, è la minaccia fisica o il tentativo di omicidio civile, cioè distruggere la credibilità del giornalista.
Qualora la pista dell’esecuzione di ’ndrangheta venisse confermata, significherebbe che l’organizzazione ha avuto la necessità di intervenire velocemente per bloccare la diffusione di informazioni. In poche parole non c’era il tempo di delegittimare Kuciak, bisognava fermarlo e basta.
Quando agisce in questo modo, un’organizzazione criminale sa che pagherà un prezzo alto in termini di repressione e attenzione mediatica, e quindi in termini di affari. Ma tutto questo l’ha già messo in conto.
Ciò significa, quindi, che in questo caso sacrificare un pezzo di affari e di organizzazione era necessario per coprire interessi più alti e complessi. Non solo, ammazzando introducono una strategia terroristica verso tutti gli altri giornalisti: «Siete tutti raggiungibili, siete tutti esposti», è il messaggio che l’esecuzione ha dato.
La ’ndrangheta non si sente più ospite in Slovacchia, tutt’altro: come da tempo l’Olanda o la Germania, si tratta ormai di “territori”, ossia luoghi dove puoi agire come faresti a Platì o San Luca. Prima la regola era: fuori non si può fare tutto ciò che si fa a casa. Ma dopo Duisburg tutte le regole sono saltate. L’Europa del Nord e quella dell’Est sono diventate estensioni della Locride.
Ján Kuciak è il secondo giornalista ucciso in Europa in pochi mesi, dopo Daphne Caruana Galizia. Ammazzare giornalisti potrebbe sembrare un errore strategico, perché convalida d’immediato, senza dover passare per un processo, le tesi del giornalista ucciso.
Questo accadeva però quando la società civile e i media riuscivano a mantenere sul caso un’attenzione così alta da mostrare sino in fondo cosa era accaduto. Oggi invece i mafiosi sanno che – esattamente come accadeva tra gli anni 50 e 70 – l’omicidio di un giornalista dura il tempo di qualche giorno di indignazione e poche ore di homepage. Quindi tutto si riduce al perimetro dei processi, dove sanno che potranno pagare il segmento militare ma salvare quello economico. Ora tutti piangono Ján, questo coraggioso ragazzo ammazzato, ma quando i giornalisti sono in vita nulla si fa per sostenerli, lasciando che diventino bersaglio di isolamento, di condanne per diffamazione e di insinuazioni (come accaduto a Daphne Caruana Galizia). Anche in Europa, come in America Latina, l’unico giornalista che riceve sostegno è il giornalista morto.