la Repubblica, 2 marzo 2018
Ján Kuciak ha aperto al suo assassino. Slovacchia, arrestati 7 italiani
Roma Se i dettagli della scena del crimine non confondono, una delle poche certezze nell’omicidio di Ján Kuciak e della sua fidanzata Martina Kusnirova è che, giovedì 22 febbraio (giorno in cui l’autopsia indica la morte dei due ragazzi), Jàn aprì la porta della sua casa di Velka Maca a un uomo ( o agli uomini) che aspettava. Con cui avrebbe discusso e che lo avrebbe poi giustiziato a bruciapelo con un solo proiettile esploso in pieno petto prima di rivolgere l’arma al volto di Martina, colpevole soltanto di essere una testimone. Lo suggeriscono alla polizia slovacca l’assenza di segni di effrazione nell’appartamento dove i corpi di Jàn e Martina sarebbero stati ritrovati la domenica 25 febbraio. Lo dicono tre tazzine da caffé in casa, ragionevolmente preparate per degli ospiti. Lo lasciano ipotizzare la circostanza che il mercoledì precedente l’esecuzione Ján aveva consegnato al direttore del portale di giornalismo investigativo Aktuality la prima parte della sua inchiesta sulla connection ‘ndranghetista con il gabinetto del primo ministro Robert Fico e che negli stessi giorni i tabulati telefonici del suo cellulare documentano una serie di contatti con Antonino Vadalà, il 42enne di Melito Porto Salvo, al centro dell’inchiesta di Ján. Lo stesso che, dalla notte di mercoledì, è in stato di fermo con altri sei conterranei: i suoi due fratelli Bruno ( 40 anni) e Sebastiano (45 anni) Vadalà; il cognato Diego Rodà ( 62 anni) e suo fratello Antonio ( 58 anni); il cugino Pietro Catroppa ( 56 anni) e suo nipote Pietro (26). Tutti arrestati a Michalovice, nella regione orientale del Paese, in forza di un provvedimento di fermo che – come consente in Slovacchia la legge – ha la durata di 72 ore e può essere disposto in forza di una ragionevole, ancorché labile evidenza, che colleghi un sospettato con il delitto per cui la pubblica accusa procede.
L’inchiesta monca di Ján ( pubblicata postuma mercoledì on line da Aktuality e da oggi in italiano sul sito di Repubblica), i contatti telefonici tra Antonino Vadalà e il giovane reporter sarebbero stati in questo senso più che sufficienti per infilare quella che, ieri, il capo della polizia Tibor Gaspar ha definito in una conferenza stampa «la pista italiana». Che, allo stato, stringe su delle armi e delle munizioni trovate nelle abitazioni dei sette calabresi al momento dell’arresto (regolarmente denunciate) e sugli esiti di un esame “stub” alla ricerca (improbabile visto il tempo trascorso) di tracce di polvere da sparo su mani e indumenti dei sospettati.
Il fermo dei sette appare come una mossa non rinviabile sotto la pressione dell’opinione pubblica slovacca ed europea ( ieri, Bruxelles, dopo le dichiarazioni del presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha chiesto conto con una lettera al governo di Bratislava di chiarire con quali criteri i fondi europei siano stati utilizzati in questi ultimi anni). A maggior ragione dopo la pubblicazione postuma dell’inchiesta di Jàn e nel pieno della spinta dell’opposizione interna, che da 48 ore chiede la testa del ministro dell’Interno Robert Kalinak, uomo più vicino al primo ministro socialdemocratico Robert Fico e ininterrottamente ministro in tre gabinetti che hanno governato la Slovacchia dal 2006. Lo stesso che avrebbe dovuto quantomeno accorgersi che le famiglie calabresi si stavano mangiando un pezzo di Slovacchia e trafficavano in affari con due figure chiave del Governo: l’ex consigliere capo del Premier e finalista di miss Universo, Maria Trockova e l’ex segretario del Consiglio di sicurezza nazionale Viliam Vasam. Anche per questo, ora, il premier Fico prova a rompere l’assedio: «Non si può pensare che la ‘ ndrangheta sia entrata in questi palazzi: questi italiani non ci risulta siano mafiosi. Al massimo, possono essere dei truffatori».
Sicuramente, come Ján aveva documentato, erano imprenditori “sui generis”. Sicuramente Antonino Vadalà era un sostenitore dello Smer, il partito del primo ministro. Sicuramente – come ancora l’inchiesta del reporter assassinato aveva svelato – i clan Vadalà e Rodà avevano qualcosa di assai singolare Le vittime Il reporter slovacco Ján Kuciak e la compagna Martina Kusnirova, uccisi nei giorni scorsi a Bratislava La polizia ha arrestato sette cittadini italiani, fra i quali l’imprenditore Antonino Vadalà nell’ascesa che li aveva portati dall’agricoltura e il commercio del bestiame al grande business delle centrali di energia a biomasse. Non fosse altro perché, come racconta Ján nella sua inchiesta, la concorrenza era stata “convinta” a fare strada con gli strumenti propri di un certo tipo di Aspromonte: corone funebri ai cancelli di aziende da ammorbidire, cassette di proiettili a chi non voleva vendere terreni agricoli, minacce di dare fuoco a trattori che non dovevano arare. Significativa, più di altre, la società Co.be.r. Spol.sro. di Diego Rodà. Costituita nel 1995 in Slovacchia è in realtà controllata dall’azienda di famiglia a Condofuri, come mostra la visura camerale consultata da Repubblica. Consistente il capitale sociale versato: un milione e 183mila 961 euro. Molto, se si pensa che la media delle decine di società intestate ai Vadalà e ai Rodà non supera mai i sei, settemila euro. Comprensibile, tuttavia, se si guarda, appunto, al legame societario diretto con la Calabria. Che fa in queste ore pensare ai nostri investigatori come quella società possa essere stata canale di riciclaggio. Non fosse altro perché a Condofuri è rimasto uno dei fratelli Rodà, Pietro, 51 anni. Allevatore anche lui. In carcere anche lui, nel 2012, nell’operazione El Dorado e con un curioso ma emblematico precedente che risale agli inizi degli anni 2000. Quando fu arrestato insieme ad altri boss delle “locali” di Condofuri perché macellava e commercializzava bestiame affetto da brucellosi ( soprattutto ovini e caprini) falsificando i documenti che indicavano i Paesi di provenienza del bestiame. Tra questi, c’era anche la Slovacchia. Del resto – se si sta agli archivi delle nostre polizie – è forte la passione per i mercati esteri dei Rodà. Diego commercializza con Turchia, Egitto e Francia. In questo quadro, si capiscono allora le parole di Joseph Kuciak, il fratello di Ján: «Vogliamo che questa indagine sia condotta da investigatori stranieri perché indipendenti dal nostro governo».