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 2018  marzo 02 Venerdì calendario

Il patriarca da Oscar. Intervista a James Ivory

Novanta come gli anni degli Academy Awards. James Ivory, il patriarca del cinema d’epoca diventato un brand, tra smoking, buone maniere e una tazza di tè, 90 anni a giugno, è candidato per la migliore sceneggiatura non originale in Chiamami col tuo nome. Il regista è l’italiano Luca Guadagnino. E l’Italia è il Paese in cui Ivory ambientò un film iconico come Camera con vista, che nel 1987 fu candidato a otto Oscar e ne vinse tre. Figlio della buona letteratura, dice che anche i libri, come la pittura, seguono le regole del mercato: «essendo un’arte “privata” offre più estro alle impennate individuali». Ivory a Los Angeles corre come penna, non come regista. La storia del film si può riassumere così: se lui ama lui.
Ivory, qual è stato il processo creativo?
«Avevo amato il libro di André Aciman, da cui è tratto, e ho subito immaginato come sarebbe stato bello poterlo trasporre al cinema, ma il percorso è stato molto tortuoso. La prima versione che mi sottoposero i produttori non mi convinceva affatto. Accettai a patto che avrei potuto riscriverla da capo. Mi piacevano sia la storia che l’idea di tornare a lavorare in Italia».
Quali sono gli altri candidati che ama?
«Dunkirk, The Shape of Water, I, Tonya e The Florida Project sono i miei preferiti».
Il criterio di giudizio dei membri degli Academy sembra cambiato. 
«Una volta vinceva Titanic e oggi Moonlight. In realtà i film indipendenti sono sempre stati nominati agli Oscar, ma raramente vincevano. Da un po’ di anni le cose sono cambiate».
Com’è vivere una candidatura agli Oscar alla soglia dei 90 anni? 
«La creatività, la curiosità, la voglia di mettersi in gioco sono l’elisir di lunga vita, ma anche stare a contatto con i giovani aiuta».
Infatti lei lavorerà per il regista Michele Diomà, 35 anni...
«Interpreterò me stesso nel film Dance again with me, Heywood! girato tra Brooklyn e Manhattan. Michele lo definisce una sorta di Mary Poppins contemporaneo, una favola metropolitana». 
Come ha conosciuto questo giovane regista italiano?
«Era ottobre, lui presentava al Greenwich Village Sweet Democracy, il suo film con Dario Fo. Lì conobbe Giorgio Arcelli Fontana, un regista che vive a New York con cui ho scritto una breve commedia a quattro mani, Modern Marriage».
Di cosa si tratta?
«È sul tema dell’immigrazione, ma affrontato in maniera satirica, dove i “clandestini” a New York sono gli italiani. Protagonista del film di Michele sarà proprio Giorgio Arcelli Fontana, che è un artista versatile, ha prodotto un videoclip di Jovanotti ed è anche un comico che si esibisce in diversi club di Manhattan». 
Lei conobbe anche Federico Fellini…
«Ricordo un suo viaggio a New York, nei primi anni ‘80. Eravamo invitati a un party e a un certo punto sua moglie, Giulietta Masina, accettò la sfida di preparare un piatto di spaghetti per tutti gli invitati. Diventò la star della serata. Dopo cena scoprii che Giulietta oltre a essere una eccellente cuoca sapeva leggere le carte, così iniziò a rivelare il futuro a ciascuno di noi».
«Camera con vista» rimane saldo nella memoria.
«Durante le riprese non vivevo a Firenze ma a Fiesole, ho mantenuto ottimi rapporti con i collaboratori di quel film e abbiamo lavorato ancora insieme. Ero consapevole che quel film sarebbe diventato il simbolo di una città e quindi ho provato a immaginare al meglio sotto quale luce rappresentare Firenze».
Quando ha scoperto l’Italia?
«Negli anni 50. Ero giovane e con pochi soldi. Ricordo il desiderio di visitare Roma, frustrato dalle mie tasche: mi erano rimasti dieci dollari. Mio padre avvertì il mio disagio e mi fece trovare sul conto cento dollari. Mi sentivo l’uomo più ricco del mondo. La vista dei monumenti mi lasciò senza fiato. E poi ho sempre amato il grande cinema italiano, De Sica, Visconti. E Federico, che era giovane anche lui. Così è inevitabile che presti attenzione a un regista italiano che viene a propormi qualcosa, ma resta in piedi un progetto che da regista accarezzo da anni, sul Riccardo II di Shakespeare».
Perché va bene l’Italia, ma il vestito su misura di Ivory restano le corone insanguinate del grande Bardo.