Corriere della Sera, 2 marzo 2018
Il destino di Vittorio Emanuele III. Successi e disastri del «re soldato»
«O Badoglio, Pietro Badoglio, ingrassato dal fascio littorio, col tuo degno compare Vittorio ci hai già rotto abbastanza i coglion…». Così cantavano nel 1944 i partigiani della brigata Carlo Rosselli (Giustizia e Libertà), mettendo nello stesso calderone ribollente di disprezzo il vecchio maresciallo d’Italia e il re Vittorio Emanuele III, colpevoli della catastrofe dell’8 settembre.
Per quanto riguarda il sovrano, allora 75enne (era nato l’11 novembre del 1869), l’ironia della sorte non avrebbe potuto essere più grande. Soprannominato il «Re soldato» per il comportamento sobrio e dedito al dovere durante la Prima guerra mondiale, era poi diventato uno dei simboli della più grande sconfitta politico-militare di tutta la storia italiana e della bancarotta di un ventennio di regime fascista, al quale aveva consentito di impadronirsi dello Stato. Bersaglio di un odio forse superiore a quello tributato al Duce, Benito Mussolini, come hanno dimostrato anche di recente le polemiche per il ritorno in patria, nel dicembre del 2017, della salma ora tumulata nel santuario di Vicoforte (Cuneo), mentre Mussolini riposa tranquillamente nella tomba di Predappio, meta di pellegrinaggi nostalgici senza che nessuno protesti più di tanto.
Un personaggio divisivo, dunque, e ancora in grado di risvegliare passioni anche violente. Appare quindi indovinata la scelta di far partire con una biografia di Vittorio Emanuele III, firmata dallo storico Pierangelo Gentile, il ciclo di volumi che il «Corriere della Sera» dedica ai personaggi, alle armi e alle tattiche della Grande guerra.
L’Italia entrò nel primo conflitto globale soprattutto per l’opera congiunta di una minoranza rumorosa di interventisti e di un partito bellicista che ebbe nel sovrano e nella corte i suoi massimi esponenti, capaci di fare sponda con le ambizioni del governo, dell’epoca guidato da Antonio Salandra e con Sidney Sonnino titolare del ministero degli Esteri. Una parte della critica storica, a proposito delle roventi giornate che vanno dal 4 maggio (denuncia della Triplice Alleanza che univa l’Italia alla Germania e all’Austria-Ungheria) al 24 maggio 1915 (inizio delle ostilità contro Vienna), ha parlato di un quasi-colpo di Stato, una specie di prova generale di quanto sarebbe poi successo nell’ottobre 1922 con la presa del potere da parte del fascismo.
Di certo ci fu una spinta da parte di governo e sovrano nei confronti di un Parlamento ancora in gran parte pacifista e neutralista. Ma non bisogna scordare che lo Statuto albertino del 1848, legge fondamentale del Piemonte risorgimentale e poi dell’Italia sabauda, all’articolo 5 assegnava solo al re il potere esecutivo e così ne delineava le competenze: «Egli è il Capo Supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra: fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune».
L’articolo 5 fu forzato parecchio. Ma parlare di colpo di Stato, cioè di sovvertimento totale della legge, appare francamente eccessivo. Del resto lo stesso Giovanni Giolitti, uomo simbolo dei neutralisti, si rese conto che c’era poco da fare, come scrisse poi nelle sue memorie: «Io sono monarchico convinto e, se mi fossi messo a capo della maggioranza neutralista, sarebbe saltata la monarchia, e questo allora mi sembrava essere il guaio maggiore».
Una volta dichiarata la guerra, Vittorio Emanuele III divenne con la massima tranquillità il primo soldato del Regno. Definizione agiografica, senza dubbio, e strumentale alla sacralità di una figura regale in cui i fanti contadini, ancora in gran parte distanti dal sentirsi parte di una compagine nazionale, potessero riconoscersi. Ma sicuramente con forti agganci alla realtà, vista la vita regolata, aliena da ogni sfarzo e protagonismo, nonché rispettosa delle gerarchie e delle attribuzioni del Comando supremo in mano a Luigi Cadorna, che il sovrano decise di condurre. Lunghi giri con la macchina fotografica, ispezioni, pasti frugali, udienze, lettura dei dispacci.
Ma quando fu il momento, con l’esercito italiano sconfitto a Caporetto, Vittorio Emanuele III seppe prendere in mano le redini del Paese, risolvendo la crisi politica seguita alla sconfitta con l’incarico di formare il governo assegnato a Vittorio Emanuele Orlando e poi assicurando agli alleati, al convegno di Peschiera, che l’esercito italiano avrebbe continuato a battersi.
C’è una gustosa scenetta, descritta anche nel volume di Gentile, tra il re e il suo aiutante Solaro del Borgo, che si incontrano sul treno che riporta il sovrano da Roma al fronte: «Scortomi nel corridoio del vagone, Sua Maestà mi domandò in piemontese: “Cosa ca pensa?” (Cosa sta pensando?). Risposi: “Maestà, dop la pieuva a ven sempre el bel temp!” (Maestà, dopo la pioggia viene sempre il bel tempo). Lessi nei suoi occhi l’approvazione; ed afferratomi il braccio, disse: “A l’è parei ch’un dev pensé” (È così che si deve pensare)». Fu il suo momento più bello.