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 2018  marzo 02 Venerdì calendario

Gabriele Cagliari, lettere dal 1993

«Il carcere e i suoi problemi, la sua gestione paradossale, sono argomenti che devono interessare la gente: il mondo non è fatto di buoni e cattivi; tutti possiamo essere a volte cattivi anche se siamo normalmente buoni». Le 28 lettere inedite (come questa del 18 luglio 1993, 2 giorni prima del suicidio a San Vittore) scritte in carcere dal 67enne presidente dell’Eni Gabriele Cagliari nei 134 giorni di custodia cautelare, e recuperate nel 2016 dal figlio Stefano in soffitta, adesso insieme a quelle già note vengono proposte dalla riflessione del figlio in Storia di mio padre (a cura di Costanza Rizzacasa d’Orsogna per Longanesi) in una chiave per certi versi sorprendente. Al punto da risultare arnesi inservibili tanto a chi non si trattiene dal praticare con spregiudicatezza l’uso contundente dei suicidi a fini di revisionismo storico-giudiziario di Mani Pulite, quanto a chi cinicamente sorvola sui destini personali delle persone coinvoltevi e non ammette altro che esaltazione integrale di quella stagione.
Non somiglia infatti a una polemica italiota, ma a una sorta di tragedia greca quella evocata da Stefano Cagliari, all’epoca architetto 35enne: a cominciare dal crudele tempismo di un destino che, lo stesso 8 marzo dell’arresto di suo padre per tangenti, vede abbattersi una diagnosi infausta su suo fratello Silvano (che morirà tre anni dopo), e sulla propria moglie Mari l’incurabilità di una malattia che la ucciderà due mesi dopo, lasciandolo solo con un bimbo di 3 anni. Un arresto quasi annunciato dalle cronache sulle indagini, e tuttavia inatteso perché «era un po’ come stare sotto le bombe: si sperava solo che la prossima non colpisse te ma qualcun altro», ma «nessuno in casa osava parlarne». Nessuno, salvo l’agghiacciante inconsapevolezza del nipotino che, preso in braccio dal nonno pochi giorni prima dell’arresto, ripete parole ascoltate all’asilo: «“In galera! in galera!”, gridò. Rimanemmo tutti di sasso».
Solo l’arroganza di psicologismi d’accatto può pensare di spiegare i motivi per i quali una persona si toglie la vita. E se il libro vi rifugge è anche grazie alla franchezza con cui il figlio racconta il proprio «dolore in quegli anni» nel «pensare non solo che il sistema, che dava soldi ai partiti secondo uso consolidato e illegale, fosse sbagliato, ma che mio padre vi si fosse adeguato e lo considerasse necessario. Mi sentivo tirato da due parti opposte. Ci aveva insegnato a scegliere l’interesse generale (...), ma in questo caso qual era l’interesse generale? Nelle sue lettere la polemica coi magistrati continuava a crescere. Ormai per lui erano il pericolo per il Paese».
È in fondo la stessa lacerazione restituita dalle lettere alla moglie Bruna (morta nel 1998). Quelle nelle quali Cagliari scrive «sono la vergogna della famiglia»; constata che «certamente era molto meglio non commettere alcun reato reale o presunto (…) ma spero che questo lavoro vada avanti con mani più “pulite” delle nostre che non abbiamo saputo (o potuto?) evitare»; e radiografa quanti «non si sono resi conto di cadere in compromissioni irrimediabili e sono stati colti di sorpresa, io tra questi ed è giusto che paghi». Ma anche quelle in cui addita «l’ideologia del rancore» sotto «l’obiettivo dichiarato» di «questi giudici certamente meritevoli e coraggiosi ma anche ambiziosi di potere e di gloria», dai quali si sente trattenuto «in violazioni di leggi al solo scopo di farmi rivelare chissà quali segreti segreti», per «scalzare ciascuno di noi dal nostro ambiente rendendoci inaffidabili in qualche modo pubblico».
È la medesima lacerazione che prova ora a comprendere anche Gherardo Colombo, uno dei pm di Cagliari in quei mesi, quando nella prefazione ragiona di cosa «accada usualmente» a una persona arrestata: «Cagliari si sente perseguitato, io credo, anche perché non può sapere come procedono le indagini, non sa cosa si nasconde dietro le domande, si ritiene vessato e non può vedere che le indagini seguono tempi e modi dipendenti da una serie di variabili a lui sconosciute. Due mondi che non comunicano. La difficoltà sta qui: nell’unire in maniera razionale e umana queste due diverse esigenze, queste due facce del processo penale». Voleva pagare, dice il figlio, «ma senza coinvolgere altri»: intento incompatibile con il compito dei magistrati di disvelare le ulteriori illegalità intuite in Eni. Cresce così, nota il figlio, una «guerra di nervi» nella quale il padre, «per 31 lunghissimi giorni non più interrogato, quando altri imputati rilasciavano nuove dichiarazioni, le confermava ma non era mai proattivo». Fino a maturare la percezione soggettiva di non «sentirmela più di sopportare ancora a lungo (...) minacce infamanti, promesse denegate, vita d a canile». E fino all’episodio, rievocato senza enfasi nel libro, degli arresti domiciliari nel filone Eni-Sai prima promessi e poi (secondo il racconto degli avvocati) negati nel parere del pm De Pasquale al gip Grigo, di cui Cagliari non attenderà la decisione («Anche questa volta ci è andata male e non capisco di preciso perché (…). Non vorrei diventare uno dei pochi capri espiatori»), accennandone alla moglie in una lettera da non aprire però subito: «È ormai molto tempo che penso a questa come l’unica risposta possibile» a «questa tortura della prigione per costringermi a confessare l’impossibile». Presagio che nel libro, per la prima volta, il cappellano don Luigi Melesi ricollega a un’uscita improvvisa di Cagliari in giugno: «Ci vuole un gesto forte. Se si suicida un detenuto a San Vittore fa un clamore passeggero, ma se si suicidano in dieci cambia il sistema carcerario».