Corriere della Sera, 2 marzo 2018
Il divario di genere rimane al 20%, tra i più alti nell’Ue
Fra i documenti presentati al World Economic Forum di Davos, qualche settimana fa, il Gender Gap Report 2017 delinea un quadro di cui certo non possiamo rallegrarci. L’indice che misura lo scarto tra uomini e donne pone infatti l’Italia all’82° posto su 144 Paesi, a distanze siderali non solo dagli Stati scandinavi, notoriamente al vertice delle graduatorie relative alle pari opportunità, ma anche da realtà quali la Germania (11° posto) e la Francia (12° posto). Il tema sfugge al confronto politico di questa campagna elettorale, tanto che nel dibattito mediatico la questione femminile, e in particolare il difficile rapporto tra le donne e il lavoro, sembra essere diventato una sorta di tabù. Sui media l’attenzione alle dinamiche di genere appare ormai circoscritta alla sola sfera delle molestie e della violenza, con la consueta morbosa curiosità alle vicende della cronaca nera, cui si accompagna l’ossessivo riferimento al settore dello spettacolo.
L’occupazione femminile rappresenta uno dei fattori di maggiore debolezza strutturale del mercato del lavoro italiano. Il nostro Paese è uno dei contesti produttivi d’Europa meno aperti al contributo delle donne. Nella fascia d’età 15-64 anni, la quota di uomini attivi è in Italia pari al 74,8%, con uno scarto di -3,8 punti percentuali dalla media europea, mentre le donne italiane attive sono il 55,2%, ben 12,2 punti percentuali al di sotto della media europea. Negli ultimi anni abbiamo avuto una importante accelerazione del tasso di attività femminile, maggiore di quella riscontrata nei principali Paesi europei. Tuttavia il gap di genere si attesta ancora su un 20% a sfavore delle donne.
C’è chi ritiene che il futuro del lavoro sarà all’insegna di una crescente quota di tempo libero a di-sposizione di un numero di persone sempre maggiore. In tal senso è stato letto anche l’accordo siglato a inizio febbraio in Germania dal sindacato unitario dei metalmeccanici, che prevede la settimana lavorativa di 28 ore su base volontaria. Va però ricordato che in Germania c’è un tasso di occupazione che ormai sfiora l’80%, quasi 20 punti percentuali in più dell’Italia, in gran parte dovuti proprio al segmento femminile. Finché il mercato del lavoro italiano rimarrà così poco inclusivo è illusorio immaginare scenari che producano una contrazione della base occupazionale o delle ore lavorate, senza avere pesanti ripercussioni sul piano della produzione, della fiscalità e del welfare.
È invece necessario che si inneschi un processo inverso, a sostegno del lavoro delle donne. Secondo la Banca d’Italia la parità di genere in termini di occupazione determinerebbe in Italia un incremento del Pil di circa il 7%. Teniamo poi presente che un più alto reddito familiare facilita la fecondità. Dove le donne lavorano di più nascono più bambini e non il contrario. Un aspetto chiave è quello delle carriere che, per le donne, sono ancora eccessivamente segnate da interruzioni e discontinuità e dal cosiddetto effetto glass ceiling, che blocca le progressioni. È necessario garantire carriere più dinamiche e più lunghe, ridurre il part time involontario, compiere uno sforzo maggiore sul piano della conciliazione, del welfare aziendale e del lavoro agile, rafforzare le misure volte a incentivare l’aggiornamento delle competenze, la formazione continua e le politiche attive per la ricollocazione. Per recuperare il ritardo rispetto al resto dell’Europa, sono questi i punti che, dimenticati nella furia erinnica di questa campagna elettorale, andranno posti al centro dell’agenda politica del prossimo governo.
*presidente Anpal