Libero, 28 febbraio 2018
I politici hanno disimparato pure a corrompere
Avete sentito parlare poco di corruzione in questa campagna elettorale? Be’, non credete che i politici all’ improvviso siano diventati tutti onesti, magari ispirandosi al consumato (e già smentito) motto grillino «Onestà».
È solo che i partiti ora, rispetto al passato, contano meno, hanno perso centralità e rilevanza non solo nel gestire la macchina pubblica, ma pure nel coordinare il malaffare e nel godere di quello. Si sono ridotti a meri strumenti oppure a inermi spettatori del processo corruttivo; non ne sono più ispiratori, attori principali e, solo raramente, ne sono beneficiari. Dal puntuale quadro del fenomeno-corruzione in Italia messo a punto dalla Fondazione Res (Politica e corruzione. Partiti e reti di affari da Tangentopoli a oggi, Donzelli a cura di Rocco Sciarrone, pp. 294, euro 35) risulta la fisionomia della Tangentopoli 2.0, in cui i partiti, da grandi sistemi di scambio di voti, appalti e denari, sono diventati una sorta di sparring partner. «La politica», fanno notare gli autori, «sembra acquisire un ruolo meno rilevante non solo come “destinataria” dei proventi della corruzione, ma anche come “promotrice” degli scambi». Con un ruolo residuale, quindi, in chiave sia attiva che passiva. Le ragioni di questa trasformazione sono fondamentalmente due: da un lato, la privatizzazione degli scambi corruttivi, per cui il politico corrotto non si fa più pagare mazzette per finanziare il sistema dei partiti, ma per arricchirsi o rafforzare il proprio potere personale.
IL CASO FANPAGE
Dall’altro, il decentramento della politica, che ha favorito un radicamento della corruzione soprattutto a livello regionale e locale, dove la maggiore pressione delle organizzazioni criminali e la più forte dipendenza del politico dal territorio agevolano dinamiche simili (e la recente inchiesta di Fanpage che ha toccato il figlio del governatore De Luca pare confermare questa tendenza). La perdita di centralità dell’istituzione-partito, beninteso, non significa una riduzione in senso lato dei fenomeni corruttivi. Se è vero che la percezione della corruzione, come ha evidenziato l’ultimo Indice pubblicato alcuni giorni fa, è diminuita in Italia (il nostro Paese è passato da 60mo al 54mo posto nel mondo), è altrettanto vero che la corruzione continua a essere un male endemico. Gli autori, attingendo ai dati Istat sui delitti di corruzione denunciati e alle sentenze della Corte di Cassazione, dimostrano infatti che il livello di corruzione nel nostro Paese è aumentato dal 2000 dopo un calo nell’immediato post-Tangentopoli. Il punto è che oggi quel processo è gestito da altri attori, a partire dalla criminalità organizzata, i cui reati finiscono per essere bollati come “Mafia”, pur trattandosi in realtà di “Corruzione” (e il processo di Mafia Capitale ha confermato la confusione tra i due aspetti).
Ma, più in generale, la stessa identificazione della corruzione si è fatta più complessa perché, da fenomeno semplice che coinvolgeva due soli soggetti, il corrotto e il corruttore, si è trasformato in una relazione triadica, in cui a gestire gli scambi sono figure che fanno capo a un’ «area grigia»: faccendieri, intermediari, oscuri portatori di interessi.
Certo, rilevano ancora gli autori, nel mancato emergere del fenomeno corruttivo pesano anche le responsabilità della giustizia che difficilmente giunge a sentenze di condanna, a dispetto dei numerosissimi procedimenti aperti per corruzione. Colpa dell’infondatezza delle accuse, talune volte, ma più spesso delle stesse norme-spot sulla lotta alla corruzione che poi faticano a raggiungere un’efficienza in termini di perseguibilità dei reati.
CULTURA DEL LAVORO
Altro aspetto interessante è la distribuzione geografica della corruzione che dimostra come le aree meno soggette siano quelle dove è più radicato il tessuto produttivo della piccola e media impresa: le regioni del Centro Italia e del Nordest. A conferma che la corruzione attecchisce meno dove la cultura del lavoro prevale su quella del legame clientelare. Alla pari, è interessante notare che la corruzione prolifera dove si ramifica in modo tentacolare la burocrazia o se ne rafforza il potere, al punto che spesso sono i funzionari pubblici, anziché i politici, a diventare protagonisti dei processi di scambi di favori e mazzette. Alla base, tuttavia, resta un problema soprattutto culturale. Finché il «costo morale» della corruzione resterà basso, cioè fino a che il corrotto o il corruttore non riceveranno un forte stigma sociale, ma verranno considerati naturali espressioni dell’inefficienza delle istituzioni, la prassi del magna magna continuerà.
Con l’avallo o meno dei partiti.