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 2018  marzo 01 Giovedì calendario

Infrastrutture in ritardo: il caso aperto delle Ferrovie

Ieri sono proseguite le cancellazioni dei treni e i disservizi ai passeggeri. Il gelo e il maltempo? No. Le inchieste del Messaggero hanno già dimostrato che bastava un milione o poco più di euro per mettere in sicurezza dal gelo i 300 deviatori della stazione Termini e i 600 dell’intero nodo romano, cioè di quello più essenziale dell’intero traffico ferroviario italiano, e invece l’intervento era stato fatto per soli 150 complessivi. «Nella logica precedente l’investimento era considerato ingiustificato, ora investiremo 100 milioni per mettere l’intera rete nelle stesse condizioni di salvaguardia al gelo di quella settentrionale», ha detto Riccardo Mazzoncini, l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato. Che ha chiesto scusa agli italiani. 
Ma diciamola tutta. In un altro Paese, non basterebbero le scuse all’indomani. Né la promessa di 100 milioni da investire in futuro, dopo che per Roma ne bastava uno o due. In un altro Paese, i guai prodotti all’intera mobilità nazionale e a centinaia di migliaia di passeggeri avrebbero preso un’altra piega. 
E non solo perché ci deve essere una proporzione tra le conseguenze di un’ammissione di colpa e i danni provocati. Ma perché è la premessa in cui s’inquadra questa vicenda, a far risultare ancora più paradossale la promessa dei cento milioni.
La gestione Fs di Mazzoncini ha potuto godere di una delega di potere di ampiezza tale da superare persino quello del suo predecessore Moretti, che pure è stato l’artefice del gruppo Trenitalia e Rfi, ne è stata l’anima e il motore cominciando a smontare la realtà che ancora ne vedeva i singoli compartimenti territoriali gestire proprie gare di procurement con logiche sussidiarie alla politica, smantellate da Tangentopoli, fino a dare al gruppo un’identità e procedure e bilanci aziendali.
Ma fatto sta che nemmeno Moretti aveva la delega conferita a Mazzoncini di accentrare in Fs il vero unico grande braccio armato del più degli investimenti infrastrutturali pubblici. Come comprovato dalla bellezza di ben 108 miliardi di impegni previsti nel piano industriale decennale 2017-2026. Né prima di Mazzoncini la politica aveva dato mai il via libera all’incorporazione in Fs di Anas, con l’idea arrischiata a giudicare dal fatto che nel mondo avanzato non è affatto consueta di accomunare ferro e strada in un gruppo unico da oltre 11 miliardi di fatturato, con altri 23,4 miliardi di investimenti in infrastrutture viarie entro il 2020. 
Un’operazione i cui delicati aspetti patrimoniali e di contenzioso hanno archiviato l’altro mandato che a Mazzoncini era stato dato, quello di pronunciare la parola decisiva sull’ipotesi di quotazione di Fs, se intera compresa la rete di Rfi a redditività fissa data dal suo contratto di programma, oppure se la sola sua parte aperta alla concorrenza dell’Alta Velocità. Un’operazione fatta anche per sottrarre il perimetro Anas al recinto Istat ed Eurostat della contabilità pubblica, e attuata in deroga al codice civile per gli accantonamenti patrimoniali, a fronte di 9 miliardi di contenzioso. E avvenuta mentre ancora sulle concessioni autostradali grava una coltre di opacità. Malgrado il Foia emanato dal ministero Madia per l’accesso agli atti della Pa, infatti, il ministero delle Infrastrutture ha sì reso note le convenzioni autostradali sin qui celate dal segreto, ma non ha pubblicato i relativi piani finanziari, senza i quali è impossibile capire quanto gli aumenti tariffari siano concessi su investimenti effettuati, o solo promessi. 
Infine, nessuno prima di Mazzoncini aveva avuto disco verde a percorrere con decisione la strada di azzerare ogni concorrenza e candidarsi a vincere o impugnare ogni gara di trasporto pubblico regionale e provare a entrare con decisione nelle maggiori municipalizzate di trasporto pubblico locale, da Milano a Roma. Ipotesi azzardata, giustificata con la necessità di creare un gruppo dalla massa critica tale da diventare protagonista con più chance in molte gare europee: quando per ironia della sorte sarà invece la possibilità più aperta alla gestione americana di Italo, cioè l’esperienza di concorrenza privata nell’alta velocità più riuscita in Europa. 
Ciascuna di queste scelte affidate hanno comportato scelte che probabilmente non sono affatto estranee al risparmio di pochi milioni sulla messa io sicurezza dal gelo del nodo ferroviario romano. La mania di grandezza ha comportato trascuratezza sui livelli minimi necessari di salvaguardia da garantire. E tutto questo andrebbe dissezionato e analizzato in profondità: perché in un Paese serio scelte tanto importanti avrebbero dovuto essere al centro della campagna elettorale, visto il ritardo infrastrutturale italiano e il gap ancora più marchiano e aggravatosi negli ultimi due decenni nel Centro Sud, e mentre troppe grandi aree metropolitane gemono sotto l’inefficienza degli enormi guai accumulati in Atac a Roma o in Anm e Eav a Napoli, tanto per limitarci a pochi scandalosi macroesempi.
Non appare congruo da una parte nutrire sogni di gigantismo europeo, e dall’altra continuare ad accusare paralisi della rete come quelli avvenuti in questi giorni. È la plateale dimostrazione che è un altro il metodo da seguire. Prima risolvere con accurati e giusti interventi gli innumerevoli problemi che gravano su ferrovie e strade italiane. Dopo, solo dopo, accarezzare sogni e aneliti internazionali. Lo dobbiamo agli italiani.