la Repubblica, 1 marzo 2018
Quini, funerale allo stadio addio al centravanti rapito
Quando lasciò il calcio in un Camp Nou mezzo vuoto, lui che era stato cinque volte capocannoniere e due volte ai Mondiali, 313 gol in tutto, sorrise e disse che «di questi tempi non puoi pretendere che la gente spenda soldi per una partita così». Enrique Castro Quini aveva chiesto che fosse trasmessa in tv: «Per farla vedere agli ammalati».
Sempre gioviale, prima di arrendersi a 68 anni a un infarto, Quini era sopravvissuto a un cancro, al dolore per la morte di un fratello e a un rapimento, raccontato in un libro con prefazione di Montalbán. Andarono a prenderlo sotto casa di domenica sera, 1 marzo 1981 aveva segnato una doppietta all’Hercules – cinque giorni dopo il fallito golpe Tejero e sette prima della sfida- primato con l’Atletico Madrid. Helenio Herrera lo aveva voluto nel Barcellona di Schuster e Simonsen, trasformando questo trentunenne eroe della provincia asturiana detto “lo stregone” in una star della Catalogna. Perciò il suo rapimento parve politico, voluto – si disse – da un gruppo di destra per fermare “i separatisti”, o dai baschi dell’Eta. Diedero la scorta alla squadra e in un’intervista all’Espresso Herrera fece lo spiritoso: «Almeno per sei mesi non ci rapiranno più nessuno». HH fu il primo a intuire che i responsabili erano degli sbandati. Un elettricista e due meccanici lo tennero per 25 giorni in uno scantinato di Saragozza, prima del blitz della polizia. «Erano simpatici». Gli passavano il giornale con i risultati. «La vera eroina in questa storia è stata mia moglie» disse Quini, in campo 35 giorni dopo. Il Barcellona finì quinto e lui chiese scusa: «Non ho potuto fare di più». Ieri il funerale allo stadio di Gijón, che non si chiamerà El Molinón ma come lui. Il cappellano dello Sporting, padre Fueyo, ha detto: «Io non giuravo su Dio. Io giuravo su Quini».