la Repubblica, 1 marzo 2018
Cronache dalla Sicilia sommersa
Non vi svelerò la trama thriller, la morte di Tano il bibliotecaro, la sparizione dell’intero liceo Maurolico, il furto di una fontana michelangiolesca e di una valigia. Mi limito a dire che è il romanzo dove il terremoto torna alla poesia settecentesca perché “... nasce la Storia / o, se vuoi dir così, nasce la Favola,/ accadon cose degne di memoria / da narrarsi al passeggio o dirsi a tavola”. Ed è il romanzo dove la poesia torna alla verità del mito, quello della Sicilia sommersa sotto la Sicilia, con un appello finale ai vigili del fuoco, al genio civile, alla sovrintendenza... perché prosciughino e scavino, “prima che sia tardi”, “per riportare allo scoperto quei pezzi di territorio urbano annegati” dal terremoto, vale a dire la città di Risa che, come la verità rovesciata della letteratura, sta in fondo al lago di Ganzirri o più precisamente al lago di Faro che “sbocca verso il mare, anzi verso entrambi i mari. E infatti laggiù nuotano insieme pesci d’acqua dolce e d’acqua salata”. Tanto, per vincere la paura c’è poi il bicchierino di rosolio.
Dunque finalmente Risa, la città annegata, diventa romanzo, dopo essere stato pittura – chi potrebbe negarlo? – nel paesaggio che fa da sfondo alla Crocifissione di Antonello. A differenza degli altri tre giganti italiani – Raffaello, Michelangelo e Leonardo – Antonello è carente di identità senza il “da Messina” che sicuramente riempie più del “da Vinci” e non solo perché Messina è la capitale di tutti i terremoti (36 catastrofi in due millenni), ma perché, come diceva Bufalino, “soffre, la Sicilia, di un eccesso d’identità”. E si sa che troppa identità fa perdere l’identità.
Infatti Diego, il protagonista, la perde quando torna a Messina forse perché anche il suo autore, Michele, è “da Messina” con un cognome arabo, Ainis, che vuol dire “fonte” e dunque fontana: quella del gigante Orione, che fondò Messina, e quella di Nettuno, che è il dio dei terremoti e “con un colpo di tridente staccò dalla Calabria la Sicilia”. Diego non ritrova le fontane che sono monumenti a quell’acqua che inghiotte il mondo a cominciare dal Collegio di Sant’Ignazio e dalla sua chiesa che davvero, in una notte del 1973, sparirono da piazza Cairoli: con la complicità della Dc e della stampa locale, furono demoliti, più in furia che in fretta, per far posto a una Standa.
E Diego inutilmente va nel Belice, che dei terremoti è la Città Santa, a cercare Jacopo, il fratello prete, “u picciriddu”, che conviveva in canonica con una donna, la baciava davanti ai parrocchiani e prendeva a cazzotti chi osava protestare. E più Diego si perde e più somiglia al fratello che si è perduto. Anche perché la sua Camilla è la stessa scandalosa Camilla del prete. Ci sono anche Carolina, Maria, Lucia (“o Luciana? o Lucilla?”), donne di Messina che per il suo poeta Bartolo Cattafi è “Terra e mare d’eccessi/ che perciò passa / dal nitore del mare alla crosta nei cessi”. Ma Diego non è Jacopo e non è neppure il suo autore. E questo Michele Ainis non è il famoso costituzionalista, l’editorialista di Repubblica che ci insegna a voler bene al Diritto e ai Diritti, ma è il Michele Ainis sommerso che ci racconta il mondo dove tutto è doppio: due mari, lo Ionio e il Tirreno; due catene montuose, i Nebrodi e i Peloritani; due giganti, Mata, femmina bianca, e Grifone, maschio nero; due cristianità: la greca e la latina (solo a Messina il vescovo è anche l’archimandrita). E due città, appunto, quella emersa e quella sommersa con l’architettura cancellata dai terremoti: chiese, scuole, cinematografi, giardini, il venditore ambulante di granite e ovviamente il campanile che rintocca nel vento per avvertire i pescatori che sarà tempesta.
Intanto, mille piccole scosse di terremoto “rendono il vero inverosimile”, come l’emersione di piccoli mostriciattoli marini: il sottile beccaccino con la testa che si stacca dal tronco; l’ascia d’argento; l’evermannella con gli occhi telescopici all’insù; la vipera di mare; il batofilo nero; il pesce lanterna; il drago marino; l’elettrona; il valenciennello; lo scorpenode. E però, nel genere “fantastico messinese” – dalle bestie prodigio dell’Orcynus Orca di D’Arrigo alla luna di Consolo che cade a pezzi sulla terra – irrompe, proprio come uno straniero, l’incipit d’omaggio a Camus e alla morte come pretesto. Anche se qui il telegramma non annunzia la morte di maman, ma di zia Rosa, che è tutte le zie della letteratura, dalla Mena dei Malavoglia alla tante Léonie che per Marcel Proust inzuppava les petites madeleines nel tè. La Maison della zia Rosa ha la carta da parati inghirlandata, il ritratto di nonno Giovanni, “il tesoro di conserve, passate di pomodoro, gelatine, sughi, melanzane sott’olio, marmellate di gelso”. E ci sono i doppi tendaggi alle finestre, “pupille con cui il mondo può spiarci”, ma anche difesa dal cielo di Messina e dai suoi stupefacenti, studiatissimi fenomeni atmosferici: la Contessa del Vento, che somiglia a una pila di piatti in rotazione; l’Arcobaleno Lunare, che perfora la notte; i Capelli della Maga, che sono il sottile ponte di luce tra Sicilia e Calabria; la Pioggia di Sangue, che macchia i panni; la Murina, che è un serpente di foschia; i Pezzenti che sono stracci di luce; il Fiume di Nebbia che è un triangolo di luce dentro il grigio più denso. Sono terremoti celesti su cui regna sovrana la Fata Morgana, la sorella di re Artù, “creatura fatua e ingannevole”, che nella grammatica dei miti di Robert Graves è “la dea della morte che assume forma di corvo”, e qui invece è “una festa di colori volanti” che “raddoppia le sventure di Messina, specchiando in cielo gli affanni di chi arranca sulla terra”. Da questa energia sismica Messina si difende rammollendosi con lo scirocco e con i cannoli dell’Antico Caffè Parnaso, con il ferryboat e con il treno “più lento di un rosario”. E la sua urbanistica è la psicosismologia, disciplina anfibia di cui questo romanzo è il manuale, ovviamente in uso nella prestigiosa università di Risa, la città sommersa.