la Repubblica, 1 marzo 2018
L’amaca
Non so come dirlo, mi sento in imbarazzo: domenica vado a votare volentieri.
Con una sensazione di contentezza che occhieggia, come una pepita nel fango, in mezzo allo sconcerto, alle litigate con gli amici (e i lettori), al dubbio di sbagliare voto, alla coscienza che il Rosatellum è un pateracchio. È una sensazione che mi accompagna ormai da mezzo secolo e resiste alla consunzione degli anni e dei partiti, alle intemperie, al deperimento delle idee – le mie come le altrui. Credo dipenda in piccola parte dal fardello etico che ciascuno di noi porta in spalla, la famosa coscienza democratica e bla bla bla. E in larga parte dal conforto, ormai rarissimo, della cerimonia collettiva, dell’occasione uguale per tutti, stesso giorno stesse ore stesso tricolore appeso stessa matita copiativa, dalla metropoli al villaggio, dal seggio sul lungomare ventoso a quello del suburbio maleolente, dal rettore al camionista, dalla casalinga all’attrice.
La messa è dei cattolici, la moschea dei musulmani, l’ebreo va al tempio e l’ateo salta il turno; quanto al calcio è sparpagliato qui e là senza rispetto, non è più il rito della domenica.
In televisione quasi nessuno guarda più lo stesso programma. Molti neppure più la televisione. Non si sa come, non si sa per quanto, le elezioni resistono ai decenni nella loro ammirevole banalità e nella loro inesorabile uguaglianza. Vado a votare volentieri perché mi fa sentire finalmente identico agli altri.