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 2018  marzo 01 Giovedì calendario

Nelle case berbere dei cavalieri Jedi. «Qui viviamo in pace con lo spirito»

Quando la Cnn, tre anni fa, ha lanciato un allarme un po’ affrettato, prendendo spunto dal sequestro di un piccolo arsenale per raccontare che la provincia di Tataouine era diventata una zona pericolosa, punto di passaggio per i jihadisti diretti verso il confine con la Libia, i tunisini l’hanno presa bene.
La strada per una risposta beffarda era sin troppo facile: su internet sono subito comparse “le prove dell’avvistamento di guerrieri pericolosissimi”. A guardare bene, però, erano solo foto di scena degli Stormtrooper, la guardia d’élite dell’Impero reso immortale da George Lucas nella saga di Guerre Stellari.
Altro che nido di fondamentalisti islamici: questa zona della Tunisia è orgogliosa proprio per aver fornito gli sfondi all’epopea di Luke Skywalker, che gli sceneggiatori hanno fatto nascere in un pianeta chiamato proprio Tatooine.
La benedizione hollywoodiana è diventata un richiamo d’eccezione per gli appassionati del genere, pronti ad affrontare escursioni sotto il solo impietoso del Djebel Dabar per vedere da vicino i luoghi dell’avventura. Gli antichi granai di Ksar Hadada, costruiti con fango, sassi e paglia, nel grande schermo si erano trasformati nel villaggio di Mos Espa, in cui il giovane umano Anakin Skywalker, (che diventerà il “cattivo” Darth Fener), trionfava con uno “sguscio” autocostruito nella gara di monoposto battendo una concorrenza di origine multiplanetaria, grazie ai riflessi sovrannaturali tipici dei cavalieri Jedi.
Le case troglodite, scavate sotto terra nella cittadina berbera di Matmata, invece, nella fantasia di Lucas diventavano il luogo d’origine di Luke, con un alberghetto locale trasformato nell’abitazione degli zii. Ma la dimora immaginaria della famiglia Skywalker, entrata anche in altri film e persino nel videogame Call of Duty, è ancora un centro di vita locale. Per la gente di Matmata, 365 chilometri a sud di Tunisi, il richiamo della location pittoresca vale ben poco: conta molto di più l’orgoglio di abitare nella casa secolare degli avi, a godersi d’estate il fresco garantito dalle pareti di roccia contro l’aria rovente del deserto, e d’inverno la protezione contro le temperature più rigide.
Qualcuno è partito negli anni ‘60 e ‘70, durante la “modernizzazione” voluta da Bourghiba forse anche per diluire l’identità berbera. Chi è rimasto lamenta la scarsità di turisti, ma non vuole nemmeno sentir parlare di trasferirsi.
Come racconta con grande dignità la signora Mounjia, fotografata nella sua cucina: «Non ho nessuna voglia di lasciare la mia casa troglodita per una moderna: si può comprare tutto, ma non la pace dello spirito».