la Repubblica, 1 marzo 2018
Fico, Calderoli, Franceschini & c. La gara (muta) per le presidenze
ROMA Ci sono più aspiranti presidenti delle Camere che premier, in questo finale di campagna elettorale. Ed è tutto dire. Ogni nome – da Fico a Bonino, da Franceschini a Gelmini e Calderoli – è legato a uno scenario diverso. In qualche caso, sul filo dell’azzardo. I diretti interessati si schermiscono («Non è il momento»), ma guardano già al 23 marzo, giorno di insediamento di Camera e Senato, primo snodo della nuova legislatura.
Le danze le ha aperte a sorpresa Silvio Berlusconi con una concessione niente meno che agli acerrimi nemici del M5S e ipotizzando un ritorno allo schema pre-‘94. «Una Camera ai 5 Stelle? Era una cosa che si faceva per fair play nella Prima Repubblica e io non sarei contrario, ma questo si può fare se la loro opposizione rimanesse entro dei limiti e non fosse quella del tanto peggio tanto meglio. Al momento restano una setta». Il leader di Forza Italia allude al caso di una maggioranza di centrodestra, ma sa bene che varrebbe ancor più nel caso di sostanziale pareggio. Non sarebbe il capo partito Luigi Di Maio – pur reduce da cinque anni alla vicepresidenza di Montecitorio – a poter ottenere i voti necessari per raggiungere lo scranno più alto.
Molte più chance, come raccontano gli ortodossi a lui vicini nel Movimento, le ha Roberto Fico: anima dialogante e sensibile al confronto col Pd e il centrosinistra. Il presidente uscente della Vigilanza Rai potrebbe essere una soluzione in caso di larghe intese Pd-Fi, centristi e + Europa, per esempio.
Perché è chiaro che se il M5S dovesse confermarsi primo partito, difficilmente il Colle consentirebbe a tagliarlo fuori non solo dall’esecutivo ma anche dalla più alte cariche istituzionali.
Le condizioni che detta Berlusconi (un’opposizione morbida in Parlamento) complicano però tutto il percorso. E Matteo Renzi? Pensa a vincerle, le elezioni, da aspirante premier.
Sul 23 marzo non si è pronunciato, né lo farà. Secondo tanti dem (a lui non proprio vicini) se il leader dovesse cedere lo scettro della segreteria dopo il 4 marzo – per esempio dopo un deludente risultato o perché contrario all’intesa con Berlusconi – è proprio a Palazzo Giustiniani, dimora della seconda carica dello Stato, che potrebbe provare a ritirarsi. Un “ritiro” d’alto rango, per i prossimi cinque anni.
L’ipotesi è suggestiva, anche perché l’ex presidente del Consiglio andrebbe a guidare proprio quell’assemblea che avrebbe voluto smantellare col referendum costituzionale. Ma sono più probabili altri scenari.
Silvio Berlusconi non ha perso occasione in queste settimane per tessere le lodi dell’europeista Emma Bonino, in corsa anche lei al Senato. Così, in caso di Grosse Koalition ma non solo, la sua candidatura alla presidenza diventa ipotesi già più plausibile.
Sempre che, va da sé, vinca il suo collegio uninominale o che la lista superi il 3 per cento.
Il centrodestra che punta a affermarsi come prima coalizione, in questa partita non resta certo a guardare. Perfino il riluttante Matteo Salvini («Alle poltrone si pensa dopo») sogna di vedere Roberto Calderoli alla presidenza di quell’aula, il Senato, in cui è protagonista da vent’anni.Difficile che nessuna delle due cariche vada a una donna, tanto più dopo una legislatura molto marcata dalla presenza forte di Laura Boldrini a Montecitorio. «La nostra carta è Mariastella Gelmini, soprattutto in caso di larghe intese», racconta un fedelissimo del Cavaliere: lei, ex ministra e anima moderata del partito, «dopo le pessime esperienze del passato, da Casini a Fini», garantirebbe a Berlusconi quel mix di disponiblità al dialogo ma anche di assoluta lealtà al capo.
L’altra pedina accreditata dentro Forza Italia, il capogruppo uscente al Senato Paolo Romani, se potesse scegliere opterebbe più per la Farnesina in un governo di centrodestra o di larghe intese, che per la presidenza del Senato.
Nessuno è in grado di prevedere cosa accadrà dopo il 4 marzo, tanto meno dentro il frullatore del Pd. Ma c’è una carta-jolly che è lì, coperta, per diverse evenienze: Dario Franceschini. Il ministro dei Beni culturali nel 2013 aveva carezzato il sogno di scalare proprio la presidenza di Montecitorio, dopo la vittoria di misura del Pd. Il dietrofront dell’allora segretario Bersani – che gli preferì Laura Boldrini nell’ottica di un’apertura a sinistra e al movimentismo dei 5 Stelle – fu alla base della rottura tra i due e del passaggio del potente capocorrente dem all’area renziana. Adesso il nome del deputato ferrarese torna in auge.
E la presidenza della Camera è solo una delle sue chance future.