Corriere della Sera, 1 marzo 2018
Quei luoghi che chiamiamo casa
Usiamo la parola «casa» molto, molto più spesso della parola «famiglia». In un vecchio film americano di impronta etologica, Cane di paglia di Sam Peckinpah, il protagonista (Dustin Hoffman) subisce le angherie di un gruppo di huligani irlandesi, anche a danno della giovane moglie e sotto i suoi occhi, ma si ribella soltanto, fino alla strage, quando i balordi gli entrano in casa. Casa uguale tana, rifugio primordiale indispensabile di cui ogni essere umano (ogni animale) ha bisogno per nascondersi e difendersi, per scaldarsi e sopravvivere, per crescere la sua prole, per celebrare i suoi riti non comunitari, privati e, appunto, famigliari. Di tutte le case in cui capita a ognuno di abitare nel corso di una vita – tra un trasloco e un altro, un quartiere e un altro, una città e un’altra, e spesso trasferirsi può diventare «cambiare la propria natura di uomo» – sono però le case dell’infanzia quelle che ci torneranno più spesso alla mente, quando più ci si sentirà soli o insicuri, nei dormiveglia e nei sogni.
In Casa «La vita» di Alberto Savinio (1943, che viene subito dopo Narrate uomini la vostra storia ), la casa è la vita, e la casa della vita è anche la casa della morte. Esplorare la casa, narrare la casa, è allora esplorare la vita, e accostarsi alla morte. Le case sono il luogo della verità, quanto meno della nostra, delle nostre esperienze e delle nostre speranze, del nostro calore e del nostro freddo, dei nostri confronti e dei nostri silenzi, del nostro fulcro affettivo e delle nostre solitudini. Delle nostre approssimazioni al vero, al nostro vero, perché (ancora Savinio) «tanto poco noi conosciamo anche quello che generiamo noi stessi, ed esprimiamo della nostra anima, e formiamo dalle nostre mani». La casa ci aiuta. La vita è fatta di case, scandita dalla novità e dall’anzianità delle case, dai passaggi da una casa all’altra. La vita dei migranti è ricerca di una casa-rifugio e, una volta trovata, è confronto tra le case.
Con Paolo Di Stefano condivido storie di migrazioni. La prima casa in cui alloggiarono mio padre e mia madre, quando si mossero a cercar lavoro in Francia, fu una stanza di uno di quegli hotel meublé tipici un tempo dei quartieri parigini, affollati da minimi nuclei familiari di stranieri o singoli lavoratori, venuti anche dalla provincia francese, una stanza senza servizi ma in cui era permesso cucinare su un fornelletto a spirito e la cui unica finestra affacciava su un canale poco distante dalla famosa cattedrale di Saint Denis. Vennero poi – anche se io abitavo in altri luoghi – il soppalco della rimessa di macchine dell’impresa edile per cui mio padre lavorava e poi, morto mio padre, altri appartamenti, ora meno precari, dove abitò mia madre, e vennero le case di mia sorella e di mio fratello, ormai autonomi, e delle loro famiglie, vennero case simili a quelle di cui parla Di Stefano, milanesi e ticinesi. «Il paese» restò bensì nel cuore di noi tutti, e lo resta ancora, con la casa dei ritorni estivi, un minimo appartamento delle case popolari costruite negli ultimi anni del fascismo, dove, quando oggi vi torno, trovo cambiato l’essenziale (l’umanità) ma non del tutto l’ambiente. I nostri rifugi si sono spostati definitivamente altrove, e sono certamente più confortevoli anche se in essi il «respiro dei muri» è meno forte, e certamente meno struggente.
Nelle case si vive non da soli, e ci si stringe, ci si ama o ci si sopporta. A volte il respiro delle case non respira soltanto l’amore ma anche l’odio. Non tutte le famiglie (le case) sono felici, o sempre felici. Ma se ricordiamo quelle in cui siamo cresciuti o che abbiamo abitato, è soprattutto per quanto ci hanno dato, non per quanto ci hanno tolto o negato. E in ogni caso, ci ricorda Di Stefano, «dopo aver respirato la nostra vita (le case) respirano anche la nostra morte». Pochi hanno ancora per sorte di poter morire nella casa dove sono nati. I soffi brutali della storia e dell’economia continuano a spingerci altrove in cerca di sicurezze, di più solidi asili e ripari.
In un film minore di De Sica e Zavattini che entusiasmò l’urbanista anarchico inglese Colin Ward, Il tetto (1956), si racconta la costruzione di una casa, poco più di una baracca in muratura, in un’Italia oggi impensabile, quando era possibile rendere legale un’abitazione se si era riusciti a edificarla in una sola notte. Se questa legge esistesse ancora, qui e altrove, cosa significherebbe nella storia di tanti migranti? Le «case della vita» non sono solo quelle ricche d’arte dei Praz o di beni degli Agnelli, le case della vita sono quelle di cui non possono ancora godere milioni di famiglie.
Le case di Paolo sono quelle delle sue migrazioni, ma soprattutto quelle che ha abitato o soggiornato in quel piccolo meraviglioso centro che è Avola, provincia di Siracusa. Il testo che precede o accompagna le foto limpide e dense, immediate e bensì evocative di Massimo Siragusa che ce le mostra, ci aiuta a capire, nell’assenza di presenze umane (solo il minerale e il vegetale, solo le pietre e gli alberi) una storia dei sentimenti che è più che una storia di sentimenti. È storia, semmai, di radici, e di abbandoni, e di ritorni per lo più provvisori. «Vedi, in quella casa io sono nato», dice Paolo alla figlia, e la figlia dirà: «Vedi, in quella casa è nato mio padre». Chi conosce Avola, e lo considera – come credo sia ancora – un paese dell’anima anche per chi non vi è nato, essenza dei civili borghi di un tempo, godrà delle immagini quanto degli scritti, e soprattutto ne godrà quando, imprevedibilmente, immagini e testi si accostano o fronteggiano, illuminandosi a vicenda proprio perché non sembra esserci una diretta corrispondenza, perché nessuno illustra l’altro.
È così che ci si accosta a una suggestione piuttosto che a una riflessione: ad abitare anche noi, in qualche strano modo, delle immagini e dei pensieri. Al margine del sogno e del ricordo, quelle case diventano le nostre case, case della mente anche se case concrete. Testi e immagini ci raccontano. Testo e immagine ci spingono al confronto, in definitiva, con il bisogno di casa, di un luogo insomma dove ricostruire la nostra sensibilità e la nostra mente e dove riprender forza per altre sortite, perché se la casa è il rifugio rigenerante, sono la strada e la piazza il nostro destino. E solo se avremo abitato buone case potremo portare buone cose nelle strade, nelle piazze, all’esterno, nella comunità. Respirare le case è, credo, l’indispensabile apprendistato a riabitare le strade.