Corriere della Sera, 1 marzo 2018
La mossa del cavallo, come tradire in tv il dialetto siciliano
Andrea Camilleri è entrato nel canone della letteratura italiana da una ventina d’anni grazie a una produzione straordinaria per timbro e per quantità: da una parte (anzi «in prìmisi», direbbero i suoi personaggi) i polizieschi di Montalbano, trasposti in fortunate fiction televisive, e dall’altra («in secùndisi») i romanzi storici. Ieri Aldo Grasso, commentando sul «Corriere» il film La mossa del cavallo, ambientato nell’Ottocento postunitario, consigliava di salvare l’immagine di Camilleri imponendo una moratoria sulle produzioni tv che lo riguardano. Ha ragione. Mentre la serie di Montalbano ha un format consolidato che il pubblico acclama come un genere «esotico» a sé sulla cui verosimiglianza non ha più bisogno di interrogarsi, uscendo dal seminato (e cioè passando al tele-romanzo storico) le cose si complicano dando un senso di saturazione. La mossa del cavallo è un romanzo glottologico, in cui il dialetto siciliano ha una funzione centrale, perché l’ispettore protagonista risolve il caso reinventandosi un siciliano arcaico che non gli appartiene più, avendo per anni vissuto al Nord. Il risultato è una farsa linguistica, un’autoparodia esagerata, al punto da rendere plateali e irritanti i vezzi para-dialettali e soprattutto gli stereotipi antropologici su cui in Montalbano si poteva soprassedere. È come se il cliché della sicilianità – grottesca, teatrale, incantevole quanto cialtrona e guitta – presente anche nei gialli ma tenuta a bada dal format, ne venisse fuori sfronta-tamente in una sorta di far west (copyright Grasso) o di spaghetti – o meglio di arancini—western macchiettistico nella lingua e nella fisiognomica. Persino offensivo per un siciliano anche solo moderatamente permaloso.