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 2018  marzo 01 Giovedì calendario

Il figlio dell’autista di Moro e la Fiat 130 dell’agguato. «Lì dentro tutta la sua vita»

Il buco sul parabrezza, provocato dal proiettile sparato mentre l’auto era ancora in movimento, è il segno più visibile dell’assalto brigatista. Ma ce ne sono altri: le lacerazioni sui sedili anteriori, dov’erano seduti i due carabinieri Domenico Ricci e Oreste Leonardi uccisi dai terroristi, e anche dietro, dove si trovava Aldo Moro, rimasto illeso e portato via dai rapitori. Oltre a Ricci e Leonardi, autista e caposcorta, non poterono fare nulla nemmeno i tre poliziotti che seguivano a bordo dell’Alfetta bianca: Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi, tutti assassinati. 
La Fiat 130 blu targata Roma L59812 dove viaggiava il presidente della Democrazia cristiana la mattina del 16 marzo 1978, quarant’anni dopo è custodita nel Museo storico della motorizzazione civile di Roma, tra una Balilla, la 1900 quirinalizia del 1960 usata dall’ex capo dello Stato Giovanni Gronchi e altre auto e moto d’epoca. Un’esposizione storica che contiene anche questo simbolo degli «anni di piombo». 
L’agguato di via Fani, dove cominciarono i 55 giorni del sequestro conclusosi il 9 maggio con l’omicidio di Moro, ha lasciato i segni sulla 130 e un vuoto incolmabile in Giovanni Ricci, figlio di Domenico Ricci, quindici anni al fianco del leader democristiano, dal 1963 fino a quella mattina. 
«Questa macchina è stata la sua tomba ma anche la sua “amante”, al punto di rendere gelosa mia madre, perché rappresentava il suo lavoro, che tanto lo assorbiva», dice Giovanni Ricci che per la prima volta può vedere e toccare l’automobile in cui è morto suo padre. «Era il suo orgoglio, e qui dentro si può dire che è racchiusa gran parte della sua esistenza, visto che cominciava a guidarla alle 6.30 del mattino e andava avanti fino a sera inoltrata, a volte anche dopo mezzanotte». 
Quando le Br uccisero Domenico Ricci e gli altri uomini della scorta, Giovanni aveva 12 anni e rimase impietrito davanti alla foto di suo padre crivellato di colpi, intrappolato nella 130, pubblicata dall’edizione straordinaria di un quotidiano. Ora scruta l’abitacolo come se cercasse qualcosa, un ricordo o un indizio di quello che accadde, e dice: «Dopo quarant’anni si discute ancora di misteri, servizi segreti o altri che sarebbero stati presenti in via Fani. Ma io sono convinto che furono le Brigate rosse a uccidere mio padre e sequestrare Moro, e che oggi conosciamo gran parte della verità. Il pezzo che manca, forse un cinque o dieci per cento, copre forse l’identità di qualche brigatista rimasto ancora senza nome, ma la sostanza della storia non cambia».
Sulla fiancata destra dell’auto ci sono i segni dei proiettili rimasti incastrati nella parte interna dello sportello anteriore, lo specchietto retrovisore s’è staccato e sta vicino alla leva del cambio, quello esterno non c’è più. Del finestrino anteriore sinistro, distrutto dal fuoco brigatista, sono rimaste alcune schegge che ancora giacciono sui tappetini. 
«Io penso che sia giunto il momento di storicizzare quel periodo – continua Ricci —, magari facendo sedere intorno a uno stesso tavolo noi vittime, i terroristi e i rappresentanti delle istituzioni per avviare un processo di riconciliazione e riflessione, e fare finalmente i conti con il nostro passato recente». 
Insieme a un piccolo gruppo di familiari di «bersagli» colpiti dai terroristi, Giovanni Ricci ha incontrato alcuni dei killer di suo padre. Un dialogo non facile, che s’è sviluppato nel corso degli anni, ma il suo bilancio è positivo: «Un’esperienza che mi ha permesso di non degradare quelle persone a oggetti, come loro facevano con le vittime, considerandoli esseri umani. Assassini, certo, che però si portano dentro il peso di ciò che hanno fatto. Io ho il massimo rispetto per la posizione di chi non condivide la mia scelta, ma a me è servita per uscire da un incubo. E oggi mi permette di vedere in questa macchina, per la prima volta, la tomba di mio padre ma anche il simbolo di un lavoro che lui amava tantissimo».