Corriere della Sera, 1 marzo 2018
Le astronavi del soccorso
Duecento chiavi in un sacco, duecento ambulanze in un prato. L’ultima missione del Cuamm in Sierra Leone è cominciata così. Con i cavi della batteria, oltre che i bisturi. In un parcheggio di Croci Rosse polverose e abbandonate alla periferia della capitale Freetown. «Solo per aprirle e controllare i motori c’è voluta una settimana», sorride Paolo Rosi. Questo trevigiano amante del Sahara è in missione per conto della regione Veneto, uno di quelli che trent’anni fa fecero da apripista in Italia mettendo in piedi il 118. Altra epoca, altro mondo: in tutta l’Africa, non esiste quel che a noi sembra scontato. Un numero e un servizio unico per le emergenze. Figuratevi in questo spicchio di continente che fa registrare il più alto tasso di mortalità materna al mondo. Dove l’epidemia di Ebola, fra le sue quattromila vittime, ha portato via centinaia di medici e infermieri. Lasciando come beffardo regalo, quattro anni dopo, uno stuolo di ambulanze fiammanti donate dalla comunità internazionale.
«Sono ottimi fuoristrada – dice Rosi —. Quando ho mandato le foto a casa i colleghi mi hanno risposto: “Portacene qualcuna!”». Non bastano gli automezzi. Bisogna formare gli operatori, predisporre il servizio telefonico, studiare i collegamenti con gli sparuti centri sanitari dove le strade sono piste nel verde della boscaglia. Un’impresa pratica e «folle», finanziata dalla Banca Mondiale. Fra le 8 ong che si sono proposte, con le chiavi in mano è rimasto don Dante Carraro e i suoi «Medici con l’Africa Cuamm», l’ong padovana che opera (dal Sud Sudan al Mozambico) secondo l’ottica dell’«ultimo miglio».
Andare in fondo alla strada. Fra gli ultimi. Con una lente particolare per mamme e bambini. In un posto come Pujehun, zona rurale con 400mila anime a 5 ore di macchina da Freetown, tra l’oceano e la Liberia. È da questo piccolo ospedale pubblico, intorno a una sala parto, che ha preso piede l’idea del 118. Dall’ambulanza che Bobby e Shaka guidano da anni sugli sterrati. Capanne di erba e argilla. Passi qualche giorno qui e riscopri quanto può essere straordinaria la nostra normalità. Stamattina Arne Begun, il medico olandese che segue la maternità con lo staff locale, lancia l’allarme. Una chiamata dal presidio sanitario di Blama Perri: una donna che ha partorito due settimane, emorragia. Bobby al volante. Veloci.
Al tempo di Ebola, le rare ambulanze erano viste con sospetto. Portavano via la gente per isolarla. «Noi infermieri spesso venivamo cacciati dal mercato perché dicevano che portavamo in giro il contagio» racconta Bernadette, camice bianco e aria tranquilla mentre l’ambulanza rimbalza e rimbalza sulle buche. Un’ora e mezza dopo, c’è tutto il villaggio riunito che aspetta. Non è la prima volta, eppure sembra che sia giunta un’astronave da un altro mondo. Da queste parti la maggioranza delle partorienti quando arriva il momento o non va all’ospedale o ci va col mototaxi. È già una bella conquista che quelli del Cuamm abbiano organizzato un sistema che assicura il rimborso della spesa. Oggi c’è addirittura l’ambulanza a quattro ruote. Senza fronzoli. Non le nostre barelle elettriche da 10mila euro. La donna sfinita dall’emorragia viene caricata a braccia sul gippone. La figlia, maestra alla scuola, le siede accanto con il fratellino Oumar di pochi giorni che spunta da un telo multicolore. Prima di farci partire Moinina Lepaka, uno dei responsabili del centro di salute, mostra con orgoglio il suo veicolo di servizio. Ce l’hanno in pochi in paese. Una bici nera, stile «freni a bacchetta».
La donna arriverà in tempo in sala operatoria, nelle buone mani del dottor Arne che lavora qui con la moglie Dorothee e il piccolo Tobias dal passo ancora incerto. L’ospedale che il Corriere visitò al tempo di Ebola è molto più popolato e vivo di allora. «La paura che teneva lontana la gente è passata – racconta don Dante – Pur prendendoci qualche rischio, abbiamo fatto bene a tenere aperto». Si è ridotto il numero delle mamme morte di parto: 28 nell’ultimo anno. Anche se siamo sempre all’«ultimo miglio». In pediatria, bambini stremati dalla malaria. Ibrahim con una gran febbre, la testa avvolta da una maglia bagnata. «Se la caverà» dice Bernadette, l’infermiera dall’aria tranquilla che lavora per 70 euro al mese.
Dal piccolo ospedale di Pujehun ai settemila parti annui del Princess Christian Maternity Hospital di Freetown con l’onnipresente Enzo Pisani, il più schivo tra gli schivi medici del Cuamm, che lavora in Africa dal 1979. C’è Marianna Zanette, triestina, signora delle ecografie. In un anno, la mortalità materna è quasi dimezzata. Non basta ancora. Pisani ricorda le donne incinte che ha visto arrivare senza vita su mezzi di fortuna. Presto ci saranno duecento ambulanze in più. Ma la carica più importante resta quella umana. A proposito: si cerca una ginecologa che possa dare un mano.