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 2018  marzo 01 Giovedì calendario

Un po’ «idraulico» un po’ Casaleggio, l’uomo di Donald per la corsa 2020

NEW YORK Dubbi che Trump, stufo dei vincoli imposti dal ruolo di presidente e di vivere da recluso nella Casa Bianca con una first lady imbronciata, mediti di non candidarsi per un secondo mandato? The Donald li ha spazzati via l’altra sera lanciando la sua campagna per la rielezione quando ancora mancano quasi tre anni al voto. Ma a fare notizia, più che un anticipo senza precedenti e l’irritazione dei parlamentari repubblicani che vorrebbero vedere il presidente concentrato sulle elezioni congressuali di midterm del prossimo novembre e non sul voto del 2020, è la scelta del manager che guiderà quella campagna: Brad Parscale, il mago del web estraneo ai circoli di Washington che dal suo ufficio a San Antonio, nel Texas, nel 2016 ha costruito la strategia che ha reso la presenza di Trump su Internet molto più efficace di quella di Hillary Clinton.
Titolare di aziende informatiche che hanno lavorato con le imprese immobiliari del gruppo Trump a partire dal 2011, Brad ha scoperto la politica solo due anni fa quando il miliardario di New York gli ha chiesto di dargli una mano anche sui social media. Il doppio ruolo imprenditoriale e politico e la capacità di analizzare i flussi elettorali utilizzando gli stessi algoritmi sviluppati dalle aziende per mappare le preferenze dei consumatori ricordano in qualche modo la figura di Gianroberto Casaleggio.
Ma Brad ha un ruolo diverso: nessun impegno politico diretto, poche apparizioni in prima persona, nessun ruolo alla Casa Bianca. Mentre gli altri artefici della vittoria elettorale di Trump, da lui chiamati a responsabilità nel suo team presidenziale, si scannavano nei corridoi della West Wing di Pennsylvania Avenue, Parscale concedeva rare interviste nelle quali descriveva sé stesso come un idraulico. Un termine che nessuno usa nei circoli del potere di Washington, visto che evoca gli «idraulici» di Nixon nello scandalo del Watergate. Ma Parscale, appunto, non è di Washington: voleva semplicemente fare il finto modesto presentandosi come l’uomo che, nella campagna di Trump, aveva sostituito i tubi che portano alla televisione, con quelli che conducono alle piattaforme digitali, da Facebook a Twitter, a Google-YouTube.
Ma in tutto questo non c’è nulla di modesto visto che, come ha raccontato su Wired Antonio Garcia Martinez (un product manager «pentito» che in passato ha lavorato per due anni in Facebook dove studiava come utilizzare i dati degli utenti per massimizzare gli introiti pubblicitari), la campagna di Trump già nel 2016 è riuscita a sfruttare le piattaforme dei social media molto meglio di quella di Hillary Clinton, che ha pagato la pubblicità molto di più, ottenendo risultati peggiori. Questo perché l’algoritmo di Facebook (ma vale anche per altre reti sociali) premia, nelle aste per gli spazi pubblicitari, i messaggi giudicati più accattivanti e che, quindi, verranno visti di più.
Una ricostruzione, quella di Martinez, confermata in un tweet dallo stesso Parscale che si vanta di aver saputo sfruttare con abilità questa tecnologia commerciale. Nulla di oscuro in tutto ciò: nel mondo della pubblicità si sa che lo spot più divertente ha la precedenza e viene fatto pagare meno. Ma l’applicazione di questi meccanismi alla politica provoca una distorsione: l’aggressività dei tweet di Trump, i toni «bombastici» della sua campagna gli hanno garantito precedenza e sconti rispetto ai messaggi monotoni della Clinton. Una disparità in contrasto con le leggi che garantiscono ai candidati pari accesso ai canali pubblicitari, alle stesse tariffe.