il Fatto Quotidiano, 1 marzo 2018
Il patto Boccia-sindacati: salari alti solo sulla carta
I contratti collettivi di lavoro, dai quali dipendono gli stipendi di milioni di italiani, hanno un nuovo quadro di regole. Quello sul quale ieri hanno messo insieme la firma i segretari di Cgil, Cisl e Uil e il presidente della Confindustria Vincenzo Boccia. Il nuovo “patto per la fabbrica” vede uniti i tre maggiori sindacati confederali ma nello stesso tempo viene fortemente contestato dalle sigle di base come l’Usb.
Gli obiettivi, nelle intenzioni di chi ha firmato, sono diversi. In primis rivendicare un principio: i salari devono essere decisi con la contrattazione collettiva. Quasi un segnale – pochi giorni prima delle elezioni – a chi, come il Partito democratico, propone di inserire una retribuzione minima per legge. L’altro scopo è contrastare i cosiddetti contratti pirata: accordi sottoscritti da organizzazioni non rappresentative e contenenti condizioni peggiori rispetto a quelle dei contratti nazionali. Da ora in poi, anche le associazioni di imprese dovranno misurare la loro rappresentatività in termini numerici. Si tratta però di una dichiarazione di intenti, per la quale nel testo si chiede l’aiuto del Cnel per fare una ricognizione, e comunque è una materia che richiede una legge nazionale. Insomma, l’effetto non sarà automatico. Quel che è certo è che rimane l’impianto del testo unico del 2014, che di fatto lascia il campo ai sindacati più rappresentativi (quelli di base, insomma, hanno pochi margini di concorrenza).
È sul tema degli stipendi che arrivano novità rilevanti. Le retribuzioni saranno composte da due voci: il trattamento economico minimo, ovvero il minimo tabellare, e il trattamento economico complessivo. Il primo, indicato con l’acronimo Tem, costituirà la base degli stipendi e sarà agganciato all’indice dei prezzi al consumo armonizzato per i Paesi Ue (Ipca). È l’indice che, dal 2009, ha sostituito l’inflazione programmata nei contratti collettivi. In quell’anno, però, la Cgil fu molto critica su questa scelta perché la riteneva penalizzante e decise quindi di non firmare l’intesa. Questa volta, invece, è stata favorevole. Nel trattamento economico complessivo (Tec) saranno compresi il Tem e tutte le altre componenti dello stipendio, in particolare il welfare aziendale, ovvero quella parte di retribuzione che il lavoratore non riceve in forma monetaria ma sotto forma di servizi (cosa già testata nel contratto dei metalmeccanici del 2016). Su questo punto l’Usb è stata molto critica, perché sostiene che da ora in poi le associazioni dei datori non accetteranno aumenti ma si limiteranno a riconoscere il semplice recupero dell’Ipca (più basso dell’inflazione programmata). Al massimo, concederanno servizi di welfare, che sono detassati, o i premi per la produttività.
L’accordo, infatti, tende a favorire la contrattazione di secondo livello, cioè quella fatta in sede aziendale: “Il contratto nazionale di categoria – si legge – dovrà incentivare lo sviluppo virtuoso della contrattazione di secondo livello, orientando le intese aziendali verso il riconoscimento di trattamenti economici strettamente legati a reali e concordati obiettivi di crescita della produttività aziendale, di qualità, di efficienza, di redditività, di innovazione”. La Cgil è più fiduciosa: “Il trattamento minimo – spiega il segretario nazionale Franco Martini – potrà crescere anche oltre il dato dell’inflazione”. Il riferimento è a un passaggio del testo che recita così: “Il contratto collettivo nazionale di categoria, in ragione dei processi di trasformazione e o di innovazione organizzativa, potrà modificare il valore del Tem”. Sulla base di questo comma, il sindacato “rosso” spera che si pongano le basi aumentare i salari almeno in settori nei quali la tecnologia richiederà maggiori competenze ai lavoratori.