La Stampa, 1 marzo 2018
Haiti, fra voodoo e zombie nella perla nera dei Caraibi
La sacerdotessa voodoo dalla pelle nerissima e dal vestito immacolato non fa la faccia cattiva, anzi sorride; ma intanto decapita un gallo, con mano esperta e taglio netto. Una vita viene offerta in sacrificio alle tenebre in cambio di qualcos’altro. Tamburi, danze rituali, coltelli e spruzzi di sangue. Sulle facce dei posseduti (quelli no, non sorridono) occhi rovesciati all’indietro a mostrare il bianco. A Port-au-Prince, la capitale di Haiti, abbiamo assistito a due cerimonie voodoo (o vudù, non sappiamo come scriverlo): una di magia bianca – perché sì, in loco abbiamo scoperto che il voodoo non è tutto zombie, esiste anche l’invocazione delle potenze benevole – mentre l’altra ci è stata proposta come magia nera; comunque un galletto, poverino, è stato decapitato anche per la magia bianca, non si scappa, una vittima ci deve essere.
Che cosa dire, dopo aver partecipato? Punto primo: qui a Haiti l’incontro con il voodoo è imprescindibile. Arrivare sull’isola e non cercare il voodoo sarebbe come non esserci. A Haiti tutti credono alla magia, anche i cattolici ferventi. Questa è l’anima profonda delle gente dell’isola, è la sua esperienza portata dall’Africa e sedimentata nella Storia.
Punto secondo: ma lo straniero di passaggio potrà mai sperare in qualcosa di più che sfiorare la superficie del voodoo? Resterà sempre col dubbio di aver assistito a una messa in scena per gente venuta da fuori. È lo stesso, identico dubbio che ci ha colto, in altri viaggi, partecipando a cerimonie dei Sioux nel South Dakota e degli aborigeni nell’Australia Centrale. Comunque queste esperienze vanno cercate, e pazienza se non si può mai avere certezza del risultato.
Fascino post coloniale
A prescindere dal voodoo, Haiti per lo straniero è una signora isola caraibica, caso mai (volendo cercare il pelo nell’uovo) un po’ più rustica della media; anche la gente che lavora nelle strutture turistiche sembra poco abituata ad avere a che fare con gli ospiti, bisogna adattarsi un po’ (non troppo).
Questa è un’ex colonia francese e l’impronta è evidentissima; Port-au-Prince sembra una New Orleans più nera, e il quartiere di Bois Verna, con le sue casette in stile retrò, ricorda il Vieux Carré della capitale della Louisiana. Champs de Mars con le statue degli eroi haitiani è di evidente ispirazione parigina, al pari del Musée du Pantheon National Haïtien. Queste pretese di gloria non sono usurpate: in effetti gli haitiani hanno combattuto da eroi per l’indipendenza. Hanno anche costruito imponenti fortificazioni, perché la prima Repubblica Nera dell’età moderna doveva difendersi da possibili rigurgiti colonialisti: così sono nati il forte di Dessalines (nel Centro dell’isola) e nel Nord la Citadelle Laferrière, o Citadelle Henri Christophe, dal nome di un leader politico un po’ sopra le righe, che di Haiti si proclamò addirittura re, e che costruì pure un Palazzo reale battezzato Sans Souci, oggi quasi diroccato ma suggestivo. Qui alla Citadelle è possibile (e consigliabile) un’ascesa panoramica di mezz’ora a cavallo.
Dal punto di vista dei francesi, la ragion d’essere di Haiti in quanto colonia era la produzione di zucchero, a cui erano destinati gli schiavi neri. I resti di una piantagione storica (risalente al 1760) costituiscono oggi il Museo Ogier-Fombrun a circa 40 chilometri dalla capitale. Con lo zucchero si fa il rum, ed è tuttora attiva (senza interruzione dal 1862) la distilleria Barbancourt, che ha pure il vantaggio di essere dentro Port-au-Prince; e il Barbancourt è un rum pregiato.
Un esploratore italiano
Comunque Haiti è un’isola povera, la più povera nei Caraibi. Ha subìto dei gravissimi torti in passato. Il romanzo «I commedianti» di Graham Greene racconta come gli americani ne abbiano fatto scempio appoggiando la peggior classe dirigente possibile. Eppure c’è la testimonianza di un viaggiatore italiano dell’Ottocento, Giacomo Costantino Beltrami, che racconta quanto l’avvio di Haiti, subito dopo l’indipendenza, fosse stato promettente. Beltrami vi sbarcò nel 1826 e scoprì un Paese affascinante, difficile per noi da ricostruire con la fantasia, in cui gli ex schiavi neri occupano le residenze dei padroni bianchi di un tempo, citando gli stessi filosofi illuministi, vestendosi alla maniera europea e mandando avanti parlamento, giornali, tribunali e università. Poi è arrivata la rovina, ma non è stata tutta colpa degli haitiani. La testimonianza di Beltrami è senza pari. Una sua biografia («Balla coi Sioux», Mimesis Edizioni) è stata pubblicata dall’autore di questo reportage, che di Beltrami ha seguito le tracce negli Usa e a Haiti due secoli dopo.