La Stampa, 1 marzo 2018
Quarant’anni di silenzio il Rossini segreto del gran rifiuto
«Dopo la morte di Napoleone c’è stato un altro uomo del quale si parla ogni giorno a Mosca come a Napoli, a Londra come a Vienna, a Parigi come a Calcutta. La gloria di quest’uomo non conosce limiti, se non quelli del mondo civile, ed egli non ha ancora trentadue anni! Tenterò di tracciare un abbozzo delle circostanze che lo hanno collocato, tanto giovane, a tanta altezza». Così inizia l’appassionante, ancorché inattendibile, biografia di Gioachino Rossini scritta da Stendhal. Trentadue anni: ne passeranno altri sette e il compositore quest’anno celebratissimo in occasione del 150° anniversario della morte, deciderà di non scrivere più opere.
Rossini è un caso unico: non ci sono precedenti, né emuli. La sua vita creativa pubblica dura soltanto 19 anni, dall’esordio, appena diciottenne, con La cambiale di matrimonio (Venezia 1810) al congedo parigino del 1829, con il Guillaume Tell. Ne vivrà altri 40, senza mai recedere da quella decisione.
L’artista al quale riesce facile il più difficile, e cioè far ridere attraverso la musica; che con l’entrata in scena di Figaro nel Barbiere di Siviglia fa irrompere nel teatro musicale l’energia di un uomo nuovo orgoglioso di essersi fatto da sé; che nella Cenerentola e nell’Italiana in Algeri gioca con vertiginose, surreali onomatopee prive di senso («Nella testa ho un campanello / che suonando fa dindin. / Come scoppio di cannone / la mia testa fa bumbum. / Sono come una cornacchia / che spennata fa crà crà. / Nella testa un gran martello / mi percuote e fa tac tà»); che, come ha scritto Claudio Casini, sa «ipnotizzare gli spettatori con sequenze ripetitive: i suoi celebri “crescendo”» e con Tancredi inaugura l’opera aperta (quale finale scegliere: il lieto o il tragico?), presenta ancora aspetti misteriosi.
«Nelle lettere ai genitori annuncia con buon anticipo la decisione di ritirarsi che prenderà dopo il Guglielmo Tell. Scrive che dopo aver divertito gli altri, ora deve far divertire sé stesso», racconta Sergio Ragni, massimo collezionista rossiniano e curatore dell’edizione integrale dell’epistolario.
Quello che con un falsificatorio luogo comune viene chiamato il «silenzio» di Rossini è in realtà un inabissarsi in un diverso universo creativo, come testimoniano i 14 volumi di quelli che lui battezza i suoi Peccati di vecchiaia: «Non solo voleva che non fossero pubblicati, ma proibiva che venissero eseguiti al di fuori dei saloni di casa. Chiudeva gli autografi nell’armadio della camera da letto, se qualche pianista o cantante desiderava studiarli poteva farlo soltanto al domicilio del Maestro», dice ancora Ragni, che si domanda quanto la malattia della quale soffriva – «una situazione disastrosa dell’apparato uro-genitale, figlia anche delle scorribande giovanili» – abbia influito sulla profonda ipocondria che lo accompagnerà sempre.
Rossini ha lasciato un indizio formidabile per farci comprendere la scissione vissuta nella seconda e più lunga parte della sua vita. È una quartina, una soltanto, tratta da Siroe, re di Persia, un «dramma per musica» di Pietro Metastasio: «Mi lagnerò tacendo / Della mia sorte amara / Ma ch’io non t’ami, o cara, / Non lo sperar da me». Per oltre venti volte mette in musica quei versi, sempre in modo diverso, in una incessante metamorfosi genetica del materiale di partenza. Quale sorte più amara, per un compositore, di quella di dover tacere, cioè di essere uscito dal meccanismo produttivo dell’opera e dalla creazione di musica nuova. Ma anche tacendo continuerà ad amare la musica e a scriverne tantissima, con una libertà nuova, prima impossibile: dopo il ritiro dalle scene, non deve più piacere a tutti, al pubblico, agli impresari, ai cantanti, ai critici. Prova a divertire sé stesso.
«A Rossini non si può chiedere “la parola che squadri da ogni lato”. Non è Beethoven, non è Verdi. Non bisogna mai prenderlo alla lettera: è inaffidabile, come quando retrodatava le sue composizioni o si definiva ironicamente “rococò”, facendosi passare per quell’uomo del Settecento che non era mai stato. L’ambiguità di Rossini è la dote che ce lo rende più vicino e, pericolosamente, più caro», dice il compositore e studioso Daniele Carnini, attivo alla Fondazione Rossini di Pesaro.
Che cosa di più ambiguo delle parole con le quali presenta, nel 1863, la Petite messe solennelle? Già il titolo è un prodigio di ironia: come fa una messa «piccola» a essere anche «solenne», e viceversa? La dedica al «Buon Dio», la definisce «l’ultimo peccato della mia vecchiaia» e si domanda: «Ho composto della musica sacra (musique sacrée) o della brutta musica (sacrée musique)?».
Il 150° anniversario della morte – avvenuta nella villa di Passy, alle porte di Parigi, il 13 novembre 1868 – magari servisse a sfatare almeno un luogo comune: non era un buongustaio, ma un bulimico compulsivo. I suoi menù sono terrificanti; eccone uno, in ordine di portate: Maccheroni / Salumi di magro con zampone / Fritto / Pesce / Filetti di pollo / Stufato / Pasticcio rifreddo / Ponce / Tartufi alla bolognesa / Piselli al burro / Dolce caldo / Frutta / Formaggi / Gelato. Eppure alle serate di casa Rossini accorreva le tout Paris. Lui rimaneva chiuso in una stanza e chiedeva alla seconda moglie, la ex demi-mondaine Olympe Pélissier, il solo essere umano che sia riuscito a domarlo, e un po’ a curarlo, chi ci fosse di là. Gli inviti ambitissimi li faceva lei, anche se tutti venivano per lui, il genio inafferrabile.