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 2018  marzo 01 Giovedì calendario

Torino, il disincanto degli studenti del Poli

Arrotola la sigaretta seduto su una panchina, l’esame di chimica è appena finito. «È andata malissimo» dice Alessio, 22 anni, di Salerno. È uno degli oltre 15 mila fuori sede che studiano al Politecnico, per votare domenica dovrebbe farsi sette ore di treno. «Funziona così soltanto in Italia e il 90% di noi è costretto a rinunciare». E dire che per lui sarebbe la prima volta: ci sono stati due referendum, vero, ma in questo caso è diverso. «Io però per mantenermi faccio il cameriere in un catering, non posso mollare tutto per una giornata», spiega. Di fianco a lui c’è Alberto, un anno più vecchio. È nato a Sulmona, lui probabilmente tornerà giù. «Ma non ho idea di chi scegliere, non mi rappresenta nessuno. E poi il nuovo sistema elettorale è troppo complicato, alla fine non ti permette di scegliere davvero». Quindi non voterà? «Non dico quello, so che esprimersi è importante. Dico soltanto che è difficile».
Torino, corso Duca degli Abruzzi. Gli schermi installati sui totem rossi proiettano le immagini del lavoro e delle città che verranno e che qui, nella cittadella dello studio, esistono già. Robot che si trasformano in colletti bianchi, prototipi dell’auto a idrogeno, depuratori che rendono potabile l’acqua del mare. Ma quello è il futuro. Il presente è fatto di ragazzi disorientati, quasi arresi di fronte ai partiti. «Ora tutti parlano di quello che faranno nei prossimi cinque anni, poi appena eletti si dimenticano di noi» dice Alessio. E in quel «noi» c’è un sentimento che attraversa tutti gli oltre 33 mila iscritti: la sensazione di sentirsi un’avanguardia, ma lontanissima dalla politica. Qui la priorità è il lavoro. «Vado su Internet e l’80% delle offerte è per un part-time. È come se i posti si fossero dimezzati – prosegue -. Io sono sempre stato di sinistra, qualcosa loro hanno fatto. Ma dicono che possiamo decidere, invece non è così». Se c’è un problema, dice Alberto, è la mancanza di tempismo. «Pensi alle unioni civili: ci siamo arrivati con dieci anni di ritardo».
Sulle bacheche la politica praticamente non esiste: i poster pubblicizzano seminari sul teatro, concorsi di idee, lezioni di lingua e di matematica, una conferenza sui cambiamenti climatici tenuta da Luca Mercalli. Gli unici riferimenti sono alle elezioni studentesche, dove ha votato il 15% degli aventi diritto, e al Jobs Act. L’ha spuntata Marco Rondina, lo studente di ingegneria che, un anno fa, di fronte al ministro dello Sviluppo Carlo Calenda improvvisò una specie di show, ironizzando sulle storture degli atenei e sui giovani lasciati soli. «Molti rinunciano a votare perché i costi per spostarsi sono troppo alti – spiega -. I disagi sono notevoli, non tutti sono in grado di sobbarcarseli. Capisco che tanti in questa tornata resteranno a casa, siamo una generazione dimenticata, però non è vero che ci sia tutto questo disinteresse. Ieri abbiamo fatto un dibattito con i candidati e l’aula era piena».
Orientarsi, per chi ha vent’anni, è difficile. Di fronte al distributore automatico, tra i ragazzi in berretti da baseball e bomber, Daniele Dito, ti racconta che, alla fine, voterà come suo padre: «Mi sono sempre affidato a lui, lo farò anche stavolta». E Teresa Faro, siciliana, ammette che «di questo voto so poco o niente, in queste settimane sono sempre stata concentrata sugli esami. Sentirò che dice la mia famiglia, sinceramente vorrei un governo che rendesse le università un luogo aperto e accessibile a tutti». Giulia Fai, diciannove anni, domenica tornerà a Lecce. «Ma non sono neppure se voterò, non mi sono informata. Secondo me a questa età non si è ancora pronti per scegliere che cosa è bene il Paese. I referendum sono più semplici». I militanti veri, al Politecnico, sono pochissimi. «C’è un disamore verso la politica che fa male, soprattutto in una realtà come questa» dice Stefano Lo Russo, professore ordinario nel dipartimento di Ingegneria dell’Ambiente, del Territorio e delle Infrastrutture e capogruppo del Partito democratico in Consiglio Comunale. Poi, di fronte alle aule, incontri Erika, che a 22 anni cammina su e giù per distribuire «Lotta Comunista», il mensile fondato nel 1965 da Arrigo Cervetto. Erika, perché lo fa? «Perché in giro c’è un senso di smarrimento devastante». Ma qualcuno lo compra? «Dipende, ma un po’ di curiosità c’è». Lei voterà? «No, non mi rappresenta nessuno. Andrei per scegliere il meno peggio, e non mi sembra corretto».