La Stampa, 1 marzo 2018
Caro maestro
Le ricorrenti cronache dalle scuole, di alunni maneschi coi professori o di maestre antifasciste per passatempo che augurano la morte ai carabinieri nell’Italia gioconda d’oggi, in cui per fascismo la morte non la rischia nessuno, se non qualche immigrato, mi suscitano diffidenza. Mi sanno di notizie di moda, reiterate anche nei casi evanescenti soltanto perché il momento è quello giusto, ma ieri ho ricevuto una busta da Maria Saroglia, insegnante in pensione di educazione artistica alle medie di Torino. Conteneva una lettera di Mario Pogliotti, giornalista Rai, indirizzata al maestro Carlo Saroglia, padre di Maria. La lettera è del maggio 1960 e qui si corre il secondo pericolo, del signora mia come si stava meglio una volta. Ma è un pericolo che si correrà, sperando di scamparlo. Mario Pogliotti è nato a Torino nel 1927, è stato inviato di guerra, autore televisivo, jazzista, ed è morto a fine 2006. In quel maggio 1960 scopre che il suo vecchio maestro sarà premiato nella sua vecchia scuola, l’elementare Silvio Pellico di via Madama Cristina, Torino. Riceverà la Croce di Cavaliere al merito della Repubblica per i quarant’anni d’insegnamento.
E siccome Pogliotti è inviato da qualche parte nel mondo, e gli sarà impossibile partecipare alla cerimonia, scrive la lettera.
Comincia così: «Caro signor maestro, perdoni innanzitutto l’aggettivo “caro” e mi consenta di chiamarla ancora signor maestro. Poi mi conceda di prendere posto nel mio banco: il quinto banco, fila di mezzo della V classe sezione A, Silvio Pellico, anno scolastico 1937-38».
Il 1938 è l’anno delle leggi razziali, l’Impero è stato proclamato da due anni. Era fascismo, quello. Pogliotti scrive al maestro: «Ogni sabato pomeriggio un volenteroso centurione si sforzava di farmi dimenticare – nella facile retorica del “me ne frego”, dei moschetti G1 e dei passi romani – quello che il signor maestro si era sforzato di inculcarci nel corso della faticosa settimana. Ma lei, il lunedì successivo, era là, indefettibile, alla cattedra, fra la lavagna e il planisfero, pronto a ricominciare da capo a insegnarci a essere galantuomini e non marmaglia, a usare il cervello prima che il fucile». Poi: «Dalla radio a 5 valvole Forges Davanzati ci elargiva, ogni sera alle otto, le sue ineffabili “Cronache del regime”. Oggi la radio, cresciuta, diventata più pomposamente Radiotelevisione Italiana, mi dà il pane quotidiano. E mi ha dato modo di girare professionalmente un buon quarto di mondo, di incontrare i personaggi più disparati, di stringere – raramente, debbo dire – la mano a galantuomini come lei, che tranquillamente, senza facili esibizionismi, preparano ogni giorno il futuro dell’umanità». Ancora: «Ma soprattutto, a me quotidianamente sottoposto al giudizio non sempre sereno del pubblico, piacerebbe tornare a sedere, per qualche po’, in quel quinto banco della fila di mezzo, con lei alla cattedra, fra il planisfero e la nera lavagna. Vorrei che me lo correggesse, questo lungo compito, con la sua matita rossoblù: e che mi desse, ancora una volta, il suo voto. Sarebbe, mi creda, il più ambito e il più vero. Quello che Ella mi ha insegnato è ancora qui dentro. Per questo lei è rimasto il Signor Maestro».
Bisogna credere che ci siano ancora insegnanti e allievi così. Insegnanti che educano a essere galantuomini e non marmaglia, senza facili esibizionismi, e allievi che conservano tutto dentro, compresa la gratitudine. Ma questa non è una lettera che parla di scuola, di maestri e di alunni, è una lettera che parla di uomini, della capacità di essere uomini qualsiasi mestiere si svolga, del diritto di essere trattati da uomini se si sente il dovere di essere uomini.