Il Messaggero, 28 febbraio 2018
E Lévi-Strauss scambiò Breton per un orso
Nella biblioteca nessuno sembrava fare caso allo spettacolo che aveva stupito Claude Lévi-Strauss, un pellerossa con un maestoso copricapo di penne d’aquila e un costume di pelli d’ermellino intento a prendere appunti con una stilografica Parker, per poi discutere con i bibliotecari in un inglese perfetto.
Ma er ano molte le cose che dovevano sorprendere, affascinare o turbare quell’esule francese approdato a New York dopo una fortunosa traversata lasciandosi alle spalle l’Europa dilaniata dalla seconda guerra mondiale. Il resoconto di queste esperienze è una delle parti più interessanti delle Lettere ai genitori. 1931-1942 (Il Saggiatore), in cui quel trentenne informa e rassicura i famigliari in ansia sulla sua sorte. Al contrario di molti esuli non detestava la città. «Quelli che definiscono brutta New York sono solo vittima di un’illusione della percezione». Non avendo ancora cambiato registro si ostinavano a giudicarla una città come le altre, senza capire che bisognava considerarla un «paesaggio artificiale» modulato dai «precipizi sublimi» alla base dei grattacieli e dalle «vallate ombrose disseminate di auto multicolori come fiori».
Tutto gli sembrava fuori misura, dal «piccolo albergo» di «soli» tredici piani, al pranzo «colossale» in un bar dove per 25 centesimi gli avevano servito panini, burro, hamburger, patate, fagiolini e insalata. Un’abbondanza inedita per quel giovane studioso abituato alla penuria della guerra. Non poteva però impedirsi di detestare la parte elegante di New York, «lussuosa, glaciale e deprimente». Si era invece trovato bene in un quartiere che gli avevano consigliato, Greenwich Village, la «Montparnasse locale», dove aveva trovato un appartamento «fantasioso». Si entrava da un seminterrato per poi risalire al primo piano dove si apriva un grande atelier da pittore col tetto di vetro, una cucina e un bagno molto moderni e una serie di finestre aperte sul verde. «Il tutto per 50 dollari al mese» compresa la cameriera, «una magnifica donna nera». Per non parlare di un’inedita comodità: l’affitto comprendeva la registrazione dei messaggi telefonico lasciati in sua assenza al telefono comune nel corridoio dello stabile.
GLI INCONVENIENTITuttavia c’erano degli inconvenienti. «Le giornate sono troppo corte per fare tutto quel che devo fare e inoltre sono distrutto dal sonno per una specie di reazione nervosa davanti a quell’esistenza talmente piena e così diversa da quella di prima». C’era solo un problema, spiegava ai genitori, dovevano scrivere «al prof. Claude L. Strauss» per evitare scambi con «un popolare fabbricanti di impermeabili» che aveva il suo stesso cognome.
Aveva subito trovato lavoro, un corso alla New School, sulle culture indigene sudamericane, il primo di una serie di incarichi che avrebbe svolto in quel periodo. Ma le basi per la rivoluzione interiore che avrebbe provocato un profondo cambiamento nel suo modo di considerate il mondo erano state poste durante la traversata dell’oceano. Infatti sulla nave aveva scambiato molte lettere con un altro passeggero, André Breton, la guida dei surrealisti, che, mentre Lévi-Strauss godeva di una sontuosa cabina, si aggirava in una tuta blu che lo faceva sembrare un orso tra gli intellettuali in esilio accalcati nel resto del transatlantico.
IL RITUALELévi-Strauss aveva partecipato con piacere ai giochi di quell’avanguardia, in cui aveva individuato «una specie di rituale d’iniziazione». Aveva condiviso con loro le scorribande tra i rigattieri della città alla ricerca di maschere e oggetti delle tribù indiane. Quelle che per gli antiquari erano curiosità senza valore diventavano per loro vere e proprie rivelazioni, non sempre positive come il giorno in cui un oggetto aveva scatenato in Breton un’inspiegabile allergia che l’aveva fatto soffrire per giorni. Proprio da quell’uomo solenne e maestoso, il giovane studioso avrebbe imparato ad apprezzare cose che altrimenti gli sarebbero sfuggite. Ma l’insegnamento più imprevedibile gli era giunto il giorno in cui, davanti a oggetti inequivocabilmente fabbricati per i turisti, aveva notato uno strano fenomeno. Mentre li guardava con disprezzo, aveva visto Breton contemplarli estasiato. In quel momento il futuro antropologo capì che il basso valore artistico degli oggetti non toglieva nulla alla loro bellezza. «Breton non era né un purista né uno specialista, ma per questo motivo vedeva cose che io non vedevo». Molti anni dopo avrebbe scritto: «L’etnologo è per prima cosa una specie di straccivendolo che si è dato il compito di raccogliere e scoprire il valore di tutto ciò che è stato disdegnato e disprezzato nel corso dei secoli».