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 2018  febbraio 28 Mercoledì calendario

Care donne #MeToo, la vostra forza é essere indifferenti all’uomo. Intervista a Francesco Pacifico

Se persino Johnny Walker, il mito macho alcolico, diventa Jane Walker – per celebrare in una nuova campagna pubblicitaria l’uguaglianza di genere e l’anniversario delle suffragette – tutto può succedere. Anche che uno scrittore si avviti su se stesso mentre compone un romanzo sulle donne e stravolga i modelli letterari consolidati in cerca di qualcosa che possa spiegare la relazione tra i sessi al tempo del #MeToo. È il caso di Francesco Pacifico, romano, classe 1977, redattore di minimaetmoralia.it e di Nuovi Argomenti, da oggi in libreria con Le donne amate (Rizzoli, pagg. 311, euro 22). Mettere in scena riti e miti in disfacimento non è una novità per Pacifico, che ci aveva provato con la borghesia romana fratturata di Class (Mondadori). Qui però le cinque donne – moglie, amante, sorella maggiore, mamma e cognata – ritratte in sequenza da Marcello, io narrante editor alla soglia dei quaranta, oltre a muoversi per fiction prendono spinta da un’attualità ineludibile.
Lo sa che parleremo di #MeToo?
«Io non ho paura, anche se il tema è delicato».
Ma se ha appena ritratto cinque donne...
«Non volevo fare ritratti. Volevo scrivere la storia di un matrimonio, in cui uno che smette di lavorare si trova in una situazione riconfigurata come equilibri di potere all’interno della coppia. Ma il libro implodeva, a causa degli stimoli che arrivavano da mia moglie, dalla società, dal momento storico. Non riuscivo più a scrivere la storia dell’uomo che affronta la donna».
Lei scrive: «Nei romanzi degli uomini veri, da Philip Roth a Edoardo Nesi, per citare i migliori, l’uomo subisce l’incomprensibilità della donna... gli uomini si agitano, sbagliano, si sbattono, e il romanzo è un flipper in cui le donne sono le sponde». È questo il modello in declino?
«Quello che ha influenzato la mia generazione di scrittori. La donna puttana o sposa sconsolata o incazzata, che salva o danna, tenta o moralizza: i ruoli del ’900 americano per Philip Roth, Saul Bellow, John Updike. Quell’idea virile divertente delle disavventure di un uomo».
E lei non è riuscito a diventare Roth?
«Ho scoperto che le donne hanno reazioni più articolate. Ho dovuto smontare il romanzo, separare queste persone e cercare di capirle una per volta. Ci sono donne che in certi momenti sono indifferenti al percorso del maschio, perché hanno altro da fare. Mi sono innamorato di questa indifferenza, mi mette allegria».
Lei ha quarant’anni, i signori di cui parla, quando va bene più del doppio. Che fine hanno fatto le generazioni nel mezzo?
«C’è stato un finto superamento: un rapporto ravvicinato e meno macho, meno sessista, meno duro. Stavano vicini alle donne in modo comunicativo, alato, ma in fondo velleitario. Prendi Terre rare di Veronesi: si raccontano i rapporti con due donne, fuga, impazzimento, desiderio di vita. Ma non è costruita un’interazione. Così non crei un nuovo modello di relazione».
E come si crea?
«Devi investigare».
Cinque donne, cinque indagini?
«Eleonora, l’amante, ha meritato il trattamento di solito riservato al maschio: si racconta la sua passione professionale, l’ambizione. La moglie, femminista, che cerca di non farsi rubare la vita dall’uomo. La cognata, che non lavora e cresce i suoi tre figli molto bene. La sorella omosessuale e la conquista faticosa di indipendenza dal giudizio della famiglia. E poi la madre, che in quanto madre è meravigliosa, struggente e ha incasinato la vita ai figli».
Una femminista come si riconosce, oggi?
«Perché te lo dice».
Non dai comportamenti?
«No. La femminista è come il cattolico: se non te lo dice, devi seguirlo fino in Chiesa per capirlo, altrimenti pensi solo che è una brava persona. Il femminismo viene annunciato, se no come lo riconosci?».
Che altro ha scoperto con l’investigazione?
«Non so se a lei l’hanno mai rivelato, ma l’uomo cresce pensando che le donne siano tutte sue schiave. Poi l’effetto nefasto di una pozione magica gli impedisce di ottenerle tutte».
Vale per tutti i maschi?
«A parte qualche persona mansueta che ha ricacciato quell’elemento in fondo alla sua coscienza, è l’unica cosa di questa intervista su cui mi sento di generalizzare. Ogni volta che un uomo ha un’interazione con una donna, a parte la madre e la sorella, pensa: Mi appartiene. Dopo tre anni di lavoro su questo romanzo, riesco a scindere ad esempio il rapporto professionale con una donna da questo stress, che è una delle fatiche dell’essere maschio».
Le donne lo sanno?
«Ci devo pensare. E comunque la narratrice del mio prossimo libro sarà una donna».
Il #MeToo le ha stravolto il plot e pure la vita.
«La donna che crede nella premessa del patriarcato mette una distanza particolare tra sé e l’uomo. Ma questa distanza non rende il rapporto impossibile, anzi. Se dovessi parlarne in un talk show direi che il femminismo nella coppia è consigliato».
Il femminismo è sexy.
«Dove nel pubblico il dibattito è sterile, nel privato è divertente».
Nelle lotte tra femministe americane e francesi, o nell’ultima battaglia social tra Jennifer Lawrence e le indignadas antisessiste non sembra che le donne si divertano...
«Tutta la parte del catfight, la lotta nel fango, non la prendo nemmeno in considerazione: un uomo non deve mettere becco su questo, sarei un soggettone se mi divertissi a vederle litigare. Siamo abbastanza di mondo per capire che le americane hanno un modo schematico di vedere le cose e le francesi epidermico».
Quindi che cosa le interessa, come scrittore?
«I cambi radicali di paradigma. Il romanzo racconta una sfida artistica: non si può più scrivere come discepoli di Philip Roth. Speriamo tutti che un amico caro non perda il posto di lavoro, ma la storia accade in modo scomposto».
Gli uomini però si sentono sotto processo: se ne è accorto, come scrittore?
«Sì, ma che me ne frega? Gli uomini si sentono sotto processo non appena gli si dice che non possono fare tutto ciò che hanno fatto fino a un minuto prima».